Dal lopinavir al promettente antivirale molnupiravir, analisi di un anno e mezzo di farmaci sperimentati per combattere il Covid-19. L’intervista ad Antonio D’Avolio della Società Italiana di Farmacologia
Curare Covid-19 e tornare alla normalità sono due concetti legati a filo doppio. L’arrivo dei vaccini ha permesso al mondo del 2021, sicuramente alla parte più abbiente, di averne un assaggio, ma è alla cura che ci si rivolge per archiviare definitivamente il virus. Quali sono le terapie che abbiamo ora a disposizione e cosa promette la ricerca per il futuro?
Abbiamo fatto questa domanda al professor Antonio D’Avolio, associato di farmacologia all’Università di Torino e membro della Società italiana di Farmacologia nella sezione Clinica. Dalla comparsa di Sars-CoV-2 sono state molte le molecole già esistenti prese in considerazione per curare la malattia Covid-19. Alcune inizialmente promettenti hanno poi deluso, altre hanno mostrato risultati sufficienti per rientrare nelle linee guida di OMS, EMA e FDA. Nessuna, comunque, ad oggi può essere la soluzione definitiva.
«La premessa da fare – spiega l’esperto – è quella legata all’ampia variabilità in termini di suscettibilità all’infezione. Ognuno di noi risponde in maniera diversa. Questo si riverbera anche a livello farmacologico: c’è un’ampia varietà dovuta a fattori genetici e metabolici da considerare. Ci siamo trovati di fronte a una pandemia che ci ha colti completamente spiazzati e non avevamo nessuna molecola utile a contrastare la replicazione virale. Quello che è venuto a mancare sono i farmaci antivirali diretti e che possono inibire la replicazione del virus, e abbiamo usato tutto quello che poteva funzionare».
Tra i primi ci sono stati lopinavir, ritonavir e darunavir, farmaci utilizzati per la cura dell’HIV. «Siamo partiti da farmaci che avevano un razionale d’utilizzo per somiglianza di composizione del virus Sars-CoV-2 con altri virus che già conosciamo – chiarisce D’Avolio -. Questi farmaci però non hanno dato esiti utili come si sperava». Allo stesso modo «abbiamo provato l’idrossiclorochina e farmaci antimalarici con scarsi risultati».
In mancanza di un antivirale diretto, che colpisse “il cuore” del virus come lo definisce D’Avolio, si è provato con antivirali che si stavano sviluppando per altri scopi. «Il remdesivir è stato il primo farmaco registrato dall’Ema contro Covid-19 e usato anche in Italia. È un farmaco che si stava studiando per l’ebola, ma i risultati sono stati migliori rispetto ai farmaci contro l’HIV». Dopo delle iniziali ottime premesse, tuttavia, allargando gli studi anche i risultati del remdesivir si sono ridimensionati, classificandoli come “a bassa evidenza di efficacia”. «È ancora considerato in alcune linee guida, lo si dà in aggiunta ad altre terapie per potenziarle» continua l’esperto.
La terapia di associazione tra farmaci, ci spiega, è la migliore per curare una malattia infettiva. Come dimostrano le cure efficaci per Epatite C ed HIV. Anche Covid-19 è stato affrontato allo stesso modo, mettendo insieme farmaci antivirali e di supporto con risultati più incoraggianti di quelli ottenuti con un solo trattamento.
«Le combinazioni sono le più variegate anche perché la scelta del farmaco dipendeva dallo stato del paziente: ospedalizzato, domiciliato, grave, fragile e di quale età». Tra le scelte più frequenti per gli ospedalizzati, segnalate dal prof. D’Avolio, abbiamo:
A domicilio si osserva una sintomatologia lieve: febbre, tosse, dolori articolari e mal di testa. In questo caso le cure sono quelle indicate per una normale influenza: paracetamolo e tachipirina. «A cui si aggiungono i corticosteroidi se si hanno dei fattori di rischio e le eparine se il paziente è allettato e non ha opportunità di muoversi (restare a letto per tanto tempo aumenta la possibilità di formare dei piccoli trombi)», specifica l’esperto SIF.
Un discorso a parte è da fare per i promettenti anticorpi monoclonali, che per D’Avolio sono «l’attualità e il futuro» sebbene restino farmaci molto costosi. Somministrati in ambito ospedaliero, vengono considerati farmaci domiciliari perché dopo la somministrazione il paziente può tornare a casa. «Questo – spiega – perché il medico che decide di somministrare questi farmaci deve riconoscere nel paziente una serie di fattori di rischio: età, altre patologie e obesità, tumori o malattie del sistema immunitario. Il trattamento deve essere effettuato entro la prima settimana di infezione o altrimenti non funzionano».
Ad oggi sono disponibili in associazione bamlanivimab-etesemivab della Eli Lilly e casirivimab-imdevimab della Regeneron. «Ogni anticorpo – prosegue D’Avolio – è in grado di riconoscere una porzione della proteina Spike del virus e legandosi al virus ne impedisce la capacità di replicazione all’interno delle cellule».
Sul futuro, ricorda il professore, c’è molto da sperare. Mai per nessuna malattia ci sono stati così tanti studi clinici contemporanei, dunque le cure andranno ad arricchirsi sempre più con il passare del tempo (e dei tentativi). Ecco i cinque più promettenti secondo D’Avolio:
«Parlerei – aggiunge – anche della vitamina D che, per ora, mancando studi clinici randomizzati con grandi numeri, non è rientrata nelle raccomandazioni EMA e AIFA. La regione Piemonte l’ha inserita come molecola off label a supporto dei pazienti domiciliati e ai pazienti ricoverati e trovati insufficienti all’arrivo in ospedale. Sono co-autore con il gruppo dell’Accademia di medicina di Torino di un lavoro dove abbiamo riportato gli studi clinici nell’uso della vitamina D in associazione con il Covid ci sono dei risultati interessanti. Probabilmente potrebbe essere considerata una molecola ad uso preventivo, supplementare con altre cure».
Manca ancora “il proiettile d’argento” contro questo virus, l’antivirale diretto che possa colpire fatalmente Covid-19. Anche per questo «il vaccino rimarrà centrale per i prossimi 2-3 anni – conclude D’Avolio – prima che questo farmaco possa arrivare. Stiamo adattando molecole già presenti sul mercato, ma non è la stessa cosa. Nei prossimi anni faremo un richiamo all’anno per potenziare la risposta, delle aziende stanno già creando un vaccino per influenza e Covid insieme da somministrare per l’inverno, questa è la direzione».
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