L’infettivologo che ha curato il paziente 1 Mattia Maestri: «Gli anticorpi monoclonali sono un’arma importante, ma non la soluzione»
«Ore 20 del 20 febbraio 2020»: è in una data che Raffaele Bruno, professore ordinario di Malattie Infettive all’università degli studi di Pavia, racchiude un cambiamento epocale, non solo per la sua carriera, ma anche per la vita di milioni di persone, prima in Italia, poi in Europa e nel mondo. «Quel giorno – racconta – è stato identificato e ufficializzato il primo caso di Covid-19 in Italia: Mattia Maestri, 38 anni, ricoverato all’ospedale di Codogno, è risultato positivo al test per il Sars-CoV-2».
Nella mente del professor Bruno c’è anche un’altra data, altrettanto decisiva: «Erano le 2:16 del 22 febbraio e dovevo prendermi cura di Mattia – ricorda lo specialista -. L’unica cosa che avevo a disposizione era un foglio con una scritta di poche righe: “Terapia paziente 1: Lopinavir-Ritonavrir, Ribavirina, Piperlacillina-Tazobactam, Bactrim, Aitromicina, Idrossiclorochina, idratazione, terapia di supporto”».
Il professore Bruno l’ha letta e si è rimboccato le maniche. Quel primo caso era solo l’inizio. Nelle ore e nei giorni successivi, infatti, i pazienti si sono moltiplicati in modo esponenziale. Ma le cure a disposizione erano sempre le stesse, riassunte in quelle poche righe.
Oggi, a distanza di quasi due anni, il professor Bruno, ai microfoni di Sanità Informazione, può raccontare tutta un’altra storia. «Dalla notte in cui ho incontrato il primo paziente è stata fatta tantissima strada – assicura l’infettivologo -. Le terapie che abbiamo attualmente a disposizione sono senza dubbio più efficaci. Sappiamo molte cose in più su questo virus e riusciamo a gestire meglio i pazienti. Distinguiamo due fasi importanti della malattia: quella di replicazione virale e quella infiammatoria. Durante la prima fase somministriamo farmaci antivirali diretti e anticorpi monoclonali; durante la successiva utilizziamo i corticosteroidi e antinfiammatori già in uso per altre patologie, come ad esempio quelle per la malattia reumatologica», aggiunge Bruno.
Sulla lista dei farmaci approvati e attualmente in uso se ne contano oltre dieci, ma gli anticorpi monoclonali sono senza dubbio i più discussi. In molti hanno evidenziato la presenza, nei centri italiani che hanno stoccato le riserve, di frigoriferi strapieni di monoclonali. Una situazione confermata, di recente, anche dal presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) Giorgio Palù che ha sottolineato come «nonostante gli importanti dati di efficacia, gli anticorpi monoclonali anti-Covid siano ancora poco utilizzati e stipati nei frigoriferi».
Per il professor Bruno se gli anticorpi monoclonali sono poco usati è perché hanno dei limiti di somministrazione. «Sono sicuramente un’arma importante – assicura – ma non sono la soluzione. Hanno il limite di poter essere utilizzati solo per alcuni pazienti, ovvero coloro che rischiano una progressione della malattia, e possono essere somministrati solo nelle prima fase della malattia. Purtroppo gli interventi non sono sempre così tempestivi e, di conseguenza, non tutti i pazienti eleggibili a questo tipo di trattamento vengono segnalati in tempo ai centri hub».
Intanto, la ricerca scientifica continua a puntare le sue energie sullo studio di nuovi e più efficaci farmaci. «Aspettiamo degli antivirali, attualmente in studio, che sembrano essere molto promettenti. Così come anche dei farmaci antinfiammatori. Ma, ovviamente, per applicarli nella pratica clinica sarà necessario attendere i risultati definitivi degli studi in corso». Per migliorare la gestione complessiva del paziente il professor Bruno suggerisce di investire di più sugli antivirali «creandone formulazioni che possano essere assunte per via orale, così – conclude – da semplificarne la somministrazione».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato