Salute 25 Maggio 2020 13:00

Covid-19, lo pneumologo: «Alcuni pazienti non guariscono del tutto»

Corsico (direttore Pneumologia San Matteo Pavia): «Molti ne escono completamente, per fortuna, ma ci può essere chi invece avrà delle alterazioni che non si risolveranno completamente. In autunno rischiamo di mettere in quarantena il milione di persone che contrae la comune influenza»

Covid-19, lo pneumologo: «Alcuni pazienti non guariscono del tutto»

Lo abbiamo intervistato al principio dell’epidemia; oggi, Angelo Maria Corsico, professore ordinario di malattie dell’apparato respiratorio all’università di Pavia e direttore dell’Unità operativa complessa di Pneumologia al Policlinico San Matteo, ha dimesso l’ultimo paziente affetto da Covid e a breve, dopo la sanificazione, riaprirà i reparti all’utenza normale. Lo pneumologo traccia quindi un bilancio dei due mesi di pandemia, mette in guardia sulla presenza del virus sottotraccia e, soprattutto, sulle possibili conseguenze a lungo termine dei pazienti che hanno avuto una polmonite da Covid.

Professore, cosa succede ai pazienti guariti da Covid? È vero che possono sviluppare problemi cronici?

«Al San Matteo di Pavia, per cercare di analizzare questi aspetti, abbiamo attivato un ambulatorio post Covid: i pazienti che sono stati dimessi per la polmonite da Covid-19 vengono richiamati a distanza di più di un mese, viene fatta una visita, una valutazione funzionale respiratoria, una radiografia del torace, degli esami ematici e, se necessario, ulteriori accertamenti in base al problema che viene evidenziato. Al momento possiamo soltanto basarci sulle informazioni che abbiamo a disposizione: conosciamo la Sars, l’epidemia da coronavirus scoppiata nel 2002-2003, e possiamo cercare di trarre qualche insegnamento. Gli studi fatti allora mostravano che un terzo dei pazienti a sei mesi dalle dimissioni presentava delle anomalie alle radiografie del torace e valori di funzionalità respiratoria più bassi rispetto ai soggetti che non avevano avuto questo tipo di virosi. Altri studi, effettuati con la tac del torace, riscontravano anomalie nel 75% dei pazienti e maggiori difficoltà per chi aveva avuto necessità della terapia intensiva. Per la precisione, tre quarti dei pazienti avevano anomalie alla tac compatibili con un’evoluzione fibrotica o comunque con una non completa risoluzione “senza cicatrici” della polmonite. Per questo dobbiamo aspettarci che ci possano essere delle conseguenze e questi pazienti dovranno avere adeguata attenzione medica. Il Covid-19, peraltro, ha avuto la particolarità di dare molto spesso dei quadri di micro trombosi e anche embolie più importanti, per esempio tromboembolie polmonari; quindi bisogna stare molto attenti nel valutare che oltre a una malattia interstiziale polmonare – evoluzione fibrotica della polmonite – possono persistere anomalie a livello vascolare polmonare, e questo potrebbe portare a una ipertensione polmonare cronica post tromboembolica che è un’altra delle possibili conseguenze a lungo termine dei pazienti che hanno avuto una polmonite da Covid».

È corretto quindi dire che dal Covid si guarisce ma non del tutto?

«Molti guariscono del tutto per fortuna, ma ci può essere chi invece avrà delle alterazioni che non si risolveranno completamente. A Pavia già è previsto, sono uscite anche delle linee guida da parte della British Thoracic Society che suggeriscono il follow up dei pazienti che hanno avuto una diagnosi clinico radiologica di una polmonite da Covid-19. Il sistema sanitario nazionale dovrà considerare che ci sarà questo ulteriore carico assistenziale al quale dovremmo fare fronte nei prossimi mesi e anni e quindi dovrà attrezzarsi adeguatamente in tal senso. Chiaramente, la maggior parte delle complicanze delle sequele che sono state segnalate per la Sars e che ci aspettiamo anche per questa malattia, sono di tipo polmonare e quindi sarà proprio la pneumologia che andrà rafforzata per poter far fronte a queste esigenze».

Saranno trattati come pazienti cronici?

«Questo è quello che ci hanno già anticipato i cinesi che sono venuti a Pavia ad incontrarci; già da loro incominciavano a vedersi delle cronicità riguardo alle sequele a lungo termine di questa polmonite. C’era molto timore che ci potesse essere, come spesso è accaduto per altre virosi respiratorie, non per la Sars, un aumento dell’asma bronchiale o dell’iperreattività bronchiale perché spesso le infezioni virali, le più banali e frequenti, possono avere questo tipo di conseguenze. Invece, per quello che ci è stato possibile osservare, questa evenienza non sembra che ci sia: il rischio di sviluppare le malattie interstiziali polmonari, la fibrosi polmonare o una ipertensione polmonare cronica post tromboembolica è più alto rispetto a quello di avere asma o BPCO come conseguenza del Covid-19».

LEGGI ANCHE: CORONAVIRUS, CORSICO (PNEUMOLOGO PAVIA): «IN TERAPIA INTENSIVA NON SOLO ANZIANI E SOGGETTI FRAGILI» 

È vero che il virus si sta affievolendo?

«Non esattamente, diciamo che quello che noi osserviamo in ospedale è una tipologia diversa di pazienti. I nuovi accessi, fortunatamente, si contano veramente sulle dita di una mano e i malati vengono ricoverati nel reparto di malattie infettive che rimarrà attivo. Quello che è cambiato enormemente è la pressione che è esercitata sugli ospedali da parte della malattia: nel corso del primo mese noi avevamo una capacità ospedaliera di “recepire” i pazienti positivi al coronavirus di 332 posti letto ogni 1000 dedicati ai malati Covid in tutta Italia. Tuttavia, l’infezione era concentrata nelle aree della Lombardia, una parte di Emilia-Romagna, la zona del piacentino, la zona del Veneto di Vo’ e una parte di Piemonte, ed eravamo, in quel momento, il Paese con la più alta pressione al mondo, secondo i dati pubblicati dalla Johns Hopkins University. Questo spiega, in gran parte, la gravità anche dei pazienti, perché vista la difficoltà ad assorbirli in ospedale spesso venivano trattati sul territorio e arrivavano ad essere ricoverati dopo parecchi giorni trascorsi a casa in corso di malattia. È chiaro che tanto più precoce è il trattamento, tanto prima il paziente starà meglio e tanto più eviteremo che si trovi in condizioni di particolari gravità. Quindi, non è il virus in sé che è cambiato, ma la possibilità di gestire i casi che è completamente trasformata rispetto al periodo più drammatico».

Il virus è ancora presente: lei ritiene che dovremmo approcciare alla fase due con estrema cautela?

«Gli ultimi focolai sono la testimonianza sia che il virus sia immutato sia che il virus sia ancora presente anche se i nuovi ricoveri sono molto pochi. Diciamo che adesso è sottotraccia, è sotto la cenere, ed è questo che rende la situazione estremamente delicata perché da una parte abbiamo la necessità economica e psicologica di ripartire, ma è chiaro che abbiamo un compagno di viaggio che è ancora con noi e dobbiamo essere pronti a individuare e circoscrivere i nuovi casi per evitare che ci siano focolai epidemici che ripartano. In tutte le situazioni in cui possiamo mantenere il distanziamento sociale, usare la mascherina e l’estrema cautela noi dobbiamo farlo. È giusto che un bar possa riaprire con le migliori intenzioni dei gestori, ma gli assembramenti di persone che magari verso tarda sera si formano e sono tutti chiaramente con la mascherina abbassata per poter bere e fumare, ecco queste cose sono per noi elementi di preoccupazione. Tutti vogliamo ricominciare, soprattutto noi medici che siamo stati e siamo ancora sotto pressione. Abbiamo, però, ancora negli occhi e nella testa quello che è successo e non vogliamo che riaccada. Io temo moltissimo l’autunno, perché immagino che sottotraccia possa esserci ancora il virus tra di noi e quando ci saranno le prime virosi respiratorie sarà estremamente difficile distinguere quello che è una comune e banale virosi dal Sars-CoV-2. Oggi, per fare un triage virtuale facciamo semplici domande che con i primi virus respiratori non ci consentiranno di distinguere le une dalle altre perché i sintomi iniziali saranno simili. Il rischio è mettere in quarantena il milione di persone circa che contrae ogni anno la comune influenza».

LEGGI ANCHE: GLI PNEUMOLOGI: «CONSIDERARE LA POSSIBILITÀ DI PORTARE LA SANITÀ SOTTO LA COMPETENZA ESCLUSIVA DELLO STATO» 

Quali risposte arriveranno dai test sierologici?

«Con i test sierologici non avremmo nessuna risposta; servono più alla collettività per capire quanti sono i soggetti che hanno sviluppato un’immunità nei confronti del virus e quanti soggetti, invece non avendola sviluppata, sono totalmente esposti al contagio. Ci danno indicazione di quanto siamo lontani dall’immunità di gregge; per il singolo paziente, invece, non è un’arma utile anzi hanno uno scarso valore per due motivi: all’esordio dei sintomi una persona può ancora non avere gli anticorpi e se un individuo risulta positivo non ci dice se è positivo nelle ultime settimane o ha una positività che risale ai giorni attuali. Inoltre, alcuni test hanno una bassa sensibilità: se è positivo ci dice qualcosa ma se è negativo molto poco».

Secondo lei quanto potrebbe durare l’immunità contro il coronavirus?

«Che si possa sviluppare questo è sicuro, tant’è che esiste la terapia sul plasma che si basa sul fatto che i soggetti sviluppano un’immunità, ma solo il tempo ci dirà quanto durerà; i casi dei due cinesi sono molto recenti».

 

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