Il professor Giuseppe Bruno (Sapienza): «Peggioramento delle condizioni cliniche e insorgenza di nuovi disturbi comportamentali». Oltre il 50% dei caregiver ha accusato acutizzazione di ansia e stress
Un peggioramento generale delle condizioni cliniche, a volte accompagnato dalla comparsa di nuovi disturbi comportamentali. La pandemia di Covid-19 e le condizioni imposte dal lockdown della primavera 2020 hanno lasciato un segno profondo su chi affronta delle problematiche cognitive. Lo ha dimostrato uno studio condotto su alcuni pazienti del Centro per disturbi cognitivi e demenza del Policlinico “Umberto I”. A Sanità Informazione ne ha illustrato i risultati il professor Giuseppe Bruno, responsabile della Clinica della Memoria del dipartimento di Neuroscienze umane dell’Università La Sapienza di Roma.
“Facing dementia during the Covid-19 outbreak” è una ricerca nata, come racconta l’esperto, dalla necessità di indagare «in che modo l’emergenza sanitaria, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, si sia riversata sulle condizioni generali di pazienti fragili, quindi con minori capacità di affrontare eventi imprevisti». Ma non solo, anche per verificarne l’effetto sui caregiver, che li accompagnano ogni giorno.
A partecipare sono state 139 persone, pazienti del Centro «visitati nelle settimane immediatamente precedenti il lockdown e poi ricontattate dopo quattro settimane dal suo inizio». Con una semplice intervista telefonica si è verificato lo stato clinico dei malati e quello psichico delle persone che prestano loro assistenza. «Fondamentale – rimarca Bruno – l’apporto del dottor Marco Canevelli, del dottor Enzo Ruberti, del professor Matteo Cesari dell’Università di Milano, che ha preso parte a distanza all’organizzazione dello studio, e di tutto il team che ci ha seguito».
In nessuno dei casi, sottolinea Bruno, «c’erano stati sintomi o diagnosi compatibili con Covid-19». Dunque un’analisi solo delle conseguenze delle misure di distanziamento, che nel «66% dei pazienti erano state scrupolosamente osservate, nonostante le persone con demenza siano poco abituate a regole stringenti». I risultati hanno mostrato conseguenze molto dure per la popolazione dell’istituto.
«Più del 30% dei pazienti contattati ha mostrato un peggioramento generale delle condizioni cliniche e cognitive e ben il 54,7% un aggravamento dei disturbi comportamentali, in parte preesistenti e in qualche caso nuovi nella storia clinica dei pazienti». Ansia, irritabilità e disturbi del sonno i più diffusi. Nel 7,2% dei casi è stato necessario modificare la terapia farmacologica a cui erano sottoposti. A significare che per oltre un terzo dei partecipanti, i piccoli progressi che con una condizione come la demenza si conquistano, hanno ricevuto una forte battuta d’arresto con l’arrivo di Covid.
«Accanto a questo – ci tiene a ribadire Bruno – il 50% dei caregiver presentavano un’accentuazione di precedenti disturbi o disagi emozionali che, in qualche modo, si accompagnano quasi sempre alla necessità di fornire un’assistenza particolarmente gravosa a questo tipo di pazienti».
Il professore sottolinea come uno studio simile possa aiutarci a trovare una nuova direzione con l’approssimarsi dei mesi invernali. Sia in caso di un’eventuale ripresa dei contagi e il conseguente inasprimento delle misure, sia nel caso la situazione resti stabile: «Migliorare la qualità dell’assistenza è necessario per non abbandonare questi pazienti». Persone che durante la pandemia hanno perso molto: tra i decessi per Covid-19 la percentuale di pazienti con demenza è alta e, come dimostra lo studio, anche chi non ha incontrato il virus ne ha riportato le conseguenze sulla propria salute.
«Con il lockdown abbiamo scoperto che si può stare accanto ai pazienti anche con la telemedicina – ricorda Bruno –. Anche solo attraverso una telefonata i caregiver si possono sentire sollevati e li si può aiutare a gestire aspetti pratici semplici, specie se il paziente è noto». L’assistenza a domicilio passa, inoltre, dalla medicina del territorio e dalla sua riorganizzazione.
«I contatti tra strutture territoriali e famiglie – chiarisce l’esperto – consentirebbero di non affollare i centri di riferimento specialistici se non nella assoluta necessità di una visita in presenza. Abbiamo avuto una risposta estremamente grata da parte delle persone contattate telefonicamente che ci ha dimostrato come non sia sempre esclusivamente necessaria la visita, ma una continuità assistenziale come questa possa essere svolta anche tramite altri mezzi, che credo rientrino anche negli obbiettivi del Sistema sanitario nazionale».
La pandemia ha più che mai dimostrato come i soggetti più fragili debbano essere il centro dei cambiamenti richiesti al sistema salute. Provvedere ai pazienti con disturbi cognitivi e ai loro caregiver è ancora più urgente, per garantire loro una qualità della vita che nessun virus dovrebbe mettere in discussione.
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