Per le altre malattie ‘somatiche’ le probabilità si alzano del 77% I dati emergono da uno studio, non ancora pubblicato, coordinato dall’Università di Ferrara e realizzato nell’ambito di Mnesys, progetto di ricerca sulle Neuroscienze sostenuto dal Pnrr
La depressione non peggiora solo la qualità di vita, ma può anche comprometterne la durata. Tutti i disturbi psichici, tra cui anche la depressione in quanto patologia psicologica più diffuso al mondo, peggiorano il decorso di altre malattie del corpo, aumentando, di conseguenza, il rischio di morte. Tra i casi più eclatanti ci sono le patologie oncologiche: nei pazienti con cancro, se è presenta anche la depressione grave, il rischio di morte è fino all’86% più alto, rispetto a chi non soffre di disturbo mentale. Per le altre malattie ‘somatiche’ le probabilità si alzano del 77%. I dati emergono da uno studio, non ancora pubblicato, coordinato dall’Università di Ferrara e realizzato nell’ambito di Mnesys, progetto di ricerca sulle Neuroscienze sostenuto dal Pnrr.
“La depressione non va considerata unicamente una patologia mentale, ma un disturbo che coinvolge molti organi e apparati, che determina un incremento degli ormoni dello stress e una riduzione dell’attività immunitaria attraverso molti meccanismi biologici, inclusi fenomeni infiammatori a livello cerebrale – spiega Luigi Grassi, ordinario di Psichiatria all’Università di Ferrara e coordinatore dello Spoke 5, uno dei sotto-progetti in cui è articolato Mnesys -. Per questo, nelle persone con patologie mentali severe è dimostrato un aumento del rischio di sviluppare malattie fisiche, incluse quelle oncologiche. La mortalità per cancro in persone affette da schizofrenia, disturbi bipolari o depressione grave è più elevata rispetto alla popolazione generale”, aggiunge Grassi.
Da questa punto di vista il progetto Mnesys potrebbe dare un contributo importante: uno studio coordinato dall’Università di Bologna ha scoperto che una caratteristica genetica, legata alla produzione di un enzima (CYP2C19), potrebbe essere all’origine della perdita di efficacia dei farmaci più usati per la depressione maggiore (gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). “Abbiamo rilevato che i pazienti con una bassa produzione dell’enzima non rispondevano al trattamento, con conseguente maggiore probabilità di cambiare antidepressivo e di avere effetti collaterali dopo la prima prescrizione rispetto a individui senza variazioni del gene studiato”, aggiunge Chiara Fabbri, ricercatrice dell’Università di Bologna e coautrice dello studio.
Le nuove evidenze potrebbero cambiare il destino di non poche persone: dai dati delle sorveglianze Passi e Passi d’Argento (PdA) coordinate dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e raccolti nel biennio 2021-2022, emerge, infatti, che circa il 6% della popolazione adulta lamenta sintomi depressivi. La percentuale varia a seconda del genere e delle condizioni socio-economiche: i sintomi depressivi arrivano all’8% fra le donne, all’11% tra le persone che hanno un basso livello di istruzione, al 17% tra chi riporta difficoltà economiche e al 9% tra chi vive una condizione precaria in ambito lavorativo. Tra le persone affette da patologia cronica la stima raggiunge il 12%. Tra gli over 65enni i sintomi depressivi raggiungono il 14% dopo gli 85 anni e il 19% tra chi riferisce due o più patologie croniche. Non sono poche nemmeno le persone che non chiedono aiuto: il 28% tra gli adulti e il 38% tra gli anziani. E pure chi lo fa si rivolge alle persone ‘sbagliate’, ovvero a familiari o amici, piuttosto che a medici specialisti. Per questo, come sottolineato dal professor Grassi “la diagnosi tempestiva e una buona gestione della malattia sono decisivi”.
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