La politerapia nella popolazione anziana nazionale interessa circa 1.300mila individui (il 10% degli over 65) che assumono 10 o più farmaci al giorno. Il gruppo più rappresentato è quello che va dai 75 agli 84 anni
La ‘politerapia’ nel diabete di tipo 2 sta emergendo come una realtà sempre più diffusa e scientificamente supportata, ribaltando il preconcetto che “meno farmaci è sempre meglio”. È un termine apparso nella letteratura medica più di 150 anni fa ma sempre in voga, se non addirittura in crescita, a causa dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento dell’incidenza di patologie croniche che si presentano contemporaneamente come complicanze di una condizione primaria. In generale, la politerapia nella popolazione anziana nazionale interessa circa un milione e 300mila individui (il 10% degli over 65) che assumono 10 o più farmaci al giorno. Il gruppo più rappresentato è quello che va dai 75 agli 84 anni: il 55% è trattato con 5-9 e il 14% con 10 o più molecole al giorno.
Un recente studio di ‘Johansson et al’ pubblicato in un numero di ‘Diabetes Care 2‘ ha descritto i cambiamenti della politerapia dal 2000 al 2020 in oltre 460mila adulti danesi con diabete di tipo 2, scoprendo che il ricorso ai farmaci è aumentato dal 53% nel 2000, al 76% nel 2020. Più precisamente, quasi il 90% dei pazienti ha usato più di cinque farmaci durante i 20 anni presi in considerazione e il 47% ne ha usati più di 10. Interessante l’identikit delle persone con maggior carico farmacologico: maschi, con più patologie concomitanti e livelli di istruzione e di reddito inferiori alla media. Mentre in Italia uno studio sui dati del REPOSI relativo ai pazienti anziani ospedalizzati, riporta la politerapia nel 79% degli anziani con diabete vs il 54% dei non diabetici e politerapia con più di 10 farmaci del 22% nelle persone con diabete vs 5% di chi non ha il diabete. Nonostante sia stata associata ad un aumento dei costi sanitari, ad una minore aderenza alle terapie e ad un maggior rischio di eventi avversi, nelle persone con diabete di tipo 2 il quadro patologico prevede diverse opzioni di trattamento per raggiungere il controllo della terapia, rallentarne la progressione e limitare ospedalizzazioni e complicanze.
Ma come si spiegano questi numeri? “Le persone con diabete di tipo due assumono una serie di farmaci per limitare il rischio di complicanze cardiovascolari, renali e metaboliche – spiega il Prof. Riccardo C. Bonadonna, Presidente Eletto della SID -. Lo studio danese ci dice infatti che l’uso di metformina è aumentato dal 31% del 2000 al 67% del 2020, e così l’uso di statine (dal 12% al 67%), di farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina (dal 37% al 64%), di beta-bloccanti (dal 16% al 30% ) e di farmaci anti-trombotici (dal 32% al 43%). Questi incrementi sono spiegati in gran parte dall’aderenza alle linee guida, e vanno salutati come indicatori di maggiore appropriatezza della terapia, in termini di selezione dei farmaci prescritti e di inquadramento degli obiettivi terapeutici da perseguire, che vedono in prima linea non solo il controllo glicemico, ma anche, e soprattutto, la protezione dal danno d’organo, che colpisce cuore, rene, sistema vascolare cerebrale, sistema nervoso, ecc. Il numero medio di malattie croniche diagnosticate nella persona con diabete di tipo 2 è salito da 3,5 a 6. Più malattie, più prescrizioni di farmaci. Ma più farmaci si prescrivono, maggiore è la responsabilità di chi prescrive, e non solo riguardo agli effetti avversi, che ovviamente si moltiplicano. A un più grande numero di farmaci corrisponde un calo dell’aderenza, e, se l’aderenza di una terapia cronica cala sotto l’80%, crolla l’efficacia protettiva della terapia. Perciò, la politerapia, o polifarmacia, deve essere accompagnata da sforzi tesi a incoraggiare, controllare e, se necessario, migliorare l’aderenza con un attento monitoraggio degli effetti avversi”evidenzia.
Se fino a qualche anno fa l’idea di prescrivere multiple terapie poteva destare perplessità sia nei pazienti che nei medici, oggi la comunità scientifica riconosce come un approccio terapeutico integrato possa rappresentare la chiave per un controllo più efficace della malattia, delle sue complicanze e delle altre comorbidità croniche. La sfida non utilizzare più o meno farmaci, ma come combinar gli strumenti terapeutici in modo ottimale per ogni singolo paziente. “Oltre alla valutazione accurata del rischio di interazioni e di effetti avversi, oltre agli effetti psicologici e sulla qualità della vita e all’impatto di costi ‘out of pocket’ che possono portare a tossicità finanziaria, bisogna ulteriormente segnalare il drammatico impatto della polipatologia nella persona con diabete di tipo 2: la fibrillazione atriale è passata dal 2% al 6%, le neoplasie maligne dal 6% al 12%, le malattie polmonari croniche dal 5% al 13%, la demenza dall’8% al 20%. È una vera e propria emergenza di poli patologia cronica con conseguente politrattamento, e un tremendo aumento del ‘fardello’ sui pazienti, le loro famiglie, la comunità tutta, sia dal punto di vista umano sia dal punto di vista economico – interviene la Prof. Raffaella Buzzetti, Presidente SID -. In questa emergenza, diventa irrinunciabile distinguere tra poli-trattamento appropriato e inappropriato e la sfida è quella di una migliore comunicazione e coordinamento, non solo tra medico e paziente, ma anche tra medici delle diverse specialità in modo che il poli-trattamento sia cucito addosso alla persona”.
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