I disturbi alimentari (DCA) sono in preoccupante aumento tra gli adolescenti. Un’emergenza in crescita esponenziale a causa dello stress dovuto alla pandemia. Maria Vittoria Strappafelci ci racconta la sua esperienza nel tunnel dell’anoressia e della bulimia ed il suo percorso di rinascita
L’emergenza sanitaria ha introdotto una serie di cambiamenti nelle nostre vite. Consuetudini e certezze in discussione e una grande paura, spesso incontrollata, rispetto alla possibilità di preservare il proprio stato di salute. I più giovani hanno dovuto affrontare una sfida dalle enormi proporzioni: l’isolamento prolungato a causa del lockdown, i vincoli legati allo svolgimento dell’attività fisica, l’introduzione della DAD. In un delicato momento di crescita, tutto questo ha generato gravi conseguenze a livello psicologico. Gli esperti assistono all’insorgenza di patologie diverse, organiche e psichiatriche.
I DCA, disturbi del comportamento alimentare, di cui si stima una crescita del 30%, costituiscono oggi un fenomeno allarmante, in crescita esponenziale anche tra i minori. Ecco le motivazioni: la quarantena, la convivenza prolungata in famiglia, la sensazione della restrizione della libertà e la mancanza di evasione hanno contribuito ad accentuare lo stress. Il timore dell’aumento di peso ha portato a diete esasperate e ansie e paure hanno provocato la perdita di controllo rispetto al cibo, con conseguenti abbuffate. E quando l’anoressia e la bulimia minano l’equilibrio psicologico e fisico dei ragazzi, i genitori avvertono, impreparati, angoscia e senso di impotenza. Maria Vittoria Strappafelci è una splendida donna che vive e lavora a Roma. Nel libro “Il digiuno dell’anima: una storia di anoressia” narra la sua vita segnata dal Disturbo del comportamento alimentare. Nell’intervista che ci ha rilasciato, racconta una storia di sofferenza, ma anche di coraggio e speranza per chi vive questa implacabile malattia.
Cosa ti ha spinto a scrivere un libro che racconta la tua battaglia contro l’anoressia?
«Per me scrivere è stata sempre una forma di terapia dell’anima: quando ero in terapia esternavo miei stati d’animo, sia positivi che negativi. Esattamente dopo venti mesi aver iniziato il percorso, che è durato cinque anni consentendomi di vincere la malattia, mi rendevo conto che scrivere fogli su fogli su ciò che avevo vissuto mi stava aiutando moltissimo ad essere una persona “libera” dal mostro. Mi aveva completamente “mangiato” prima l’anima, poi il corpo. Così, visti gli ottimi risultati, alla fine ho deciso di farne un libro per raccontare nei minimi dettagli la mia malattia ed il mio triste vissuto nel tunnel dell‘anoressia, a cui si era addizionata anche la bulimia nervosa con compensazione. Ma soprattutto ho scritto per far capire a chi soffre e alle persone che ritengono ancora il non mangiare “un capriccio”, che dai disturbi alimentari si può uscire e guarire, quando la persona oppressa dalla malattia arriva alla consapevolezza di essere in un vortice che porta alla morte. Solo dopo aver raggiunto un tale stato di coscienza si può essere aiutati e arrivare alla guarigione seguendo un percorso terapeutico. Da soli, nonostante la volontà, non si esce da questo maledetto disturbo».
Cosa accade quando il rapporto con il cibo si trasforma in una relazione tossica che purtroppo segna il destino di molte donne?
«Purtroppo, quando si vive con un DCA si innesca un meccanismo che perdura nel tempo, in cui il cibo è veramente paragonabile ad una droga di cui non si può assolutamente fare a meno. Nel momento in cui non la si assume si va in crisi di astinenza. Mi riferisco alla bulimia con compensazione, vissuta contemporaneamente all’anoressia, legata a lunghi digiuni. Assumevo il cibo per colmare i vuoti, le angosce, le paure e tutti gli stati d’animo negativi. Il cibo era “salvezza” e mi faceva stare bene proprio come una sostanza stupefacente. Poi arrivavano i sensi di colpa ed un odio intenso verso me stessa: correvo a rigettare il tutto perché avevo “trasgredito” le regole che il mostro mi aveva inculcato in testa. La consapevolezza è esordita esattamente dopo una delle mie solite abbuffate notturne in cui ho davvero toccato il fondo, svenendo. Ho avuto paura di morire. La morte in quel preciso istante mi ha spaventata, ed è come se all’improvviso, quando ho ripreso coscienza, mi fossi svegliata da un brutto incubo durato anni. Credo che chi soffre di un DCA debba davvero toccare il fondo per poter rinascere ad una nuova vita!».
Cosa è per te il mostro e come si impossessa dell’anima prima e del corpo poi?
«L’ho chiamato mostro, ma anche in tanti altri modi, perché è davvero un “qualcosa” che è molto difficile descrivere, per come ti trasforma e per quanta forza ha. Sembra di non poterlo comandare. Mi mangiava l’anima in quanto non riuscivo più a gestire le mie emozioni e sentivo fortemente un gran bisogno di amore. Qui esce fuori la carenza di affetto che ho avvertito sin da bambina a causa di vissuti personali complessi e che ho portato con me durante il periodo adolescenziale. Purtroppo, tutto nasce da dentro l’anima, per poi “uscire” fuori e danneggiare il corpo riducendolo come uno scheletro. Ci si trova di fronte a una rottura dell’equilibrio interiore, una scissione tra corpo e mente, che non vanno più d’accordo. Quando il corpo e la mente viaggiano come due entità separate diventa difficile convivere con sé stessi, e trionfa il disturbo del comportamento alimentare».
Come può lo specchio tradire la mente rimandando un’immagine distorta?
«Lo specchio riflette l’immagine di un corpo reale, che però la mente distorce. Questo avviene a causa della scarsa considerazione di sé stessi, cioè di un’autostima profondamente minata, praticamente inesistente. Più sei magra e più ti vedi grassa. Per questo motivo spesso ci si punisce, si è spietati contro il proprio corpo, lo si aggredisce e lo si odia, anche verbalmente, con un giudizio che va al di là della realtà. Io non mi accorgevo di quanto quella vocina interiore mi demolisse anziché rafforzarmi. Questo mi portava ad osservare la mia immagine per come pensavo di essere, in maniera distorta, amplificando il giudizio negativo su me stessa che discendeva dal non amarmi più».
Bulimia e Anoressia: cosa sono e come sono intervenute nella tua vita?
«L’eccessiva restrizione del cibo, quando si vive in anoressia, quindi di lunghi digiuni, sfocia poi in bulimia. Questo è ciò che è successo a me: avevo “fame”, ma il mostro mi comandava di non mangiare, per cui, dopo aver resistito a lungo in questa estenuante guerra interiore, cercavo il modo per appagare il mio bisogno di nutrirmi, e allo stesso tempo tentavo di assecondare la mia esigenza di rimanere magra. Succedeva quindi che mi gettavo nell’abbuffata per colmare la grande fame, ma poi correvo a vomitare il cibo per la paura di prendere peso; non lo avrei mai accettato».
Cosa ti ha spinto a chiedere aiuto?
«La mia storia è stata segnata da quell’episodio eclatante di cui ho fatto cenno. Durante una delle mie solite abbuffate notturne svenni sul water mentre rigettavo la “mia droga” e rimasi lì, non ricordo per quanto tempo (in quel periodo mi trovavo sola a casa). Quando ripresi coscienza è stato come mi fossi risvegliata da un brutto incubo durato anni. per la prima volta mi vidi nello specchio per quella che ero diventata. Era l’estate del 2004. Solo nell’ottobre 2007, tre anni dopo, ho intrapreso il mio percorso. I tre anni precedenti sono stati i più difficili nella mia malattia. Mi promettevo di farcela da sola ogni mattina, ma da sola non riuscivo. Il mostro ogni giorno “violentava” il mio organismo e la mia mente; giorno dopo giorno arrivai al punto di non avere più forze e passai gli ultimi tempi a letto. Ormai tutti mi davano per spacciata. Pesavo 34 kg scarsi. Aspettavano la mia morte. Io non volevo morire, ma vivere, anche se sapevo che in quella condizione non ce l’avrei fatta. Un giorno mio fratello ha assunto un ruolo fondamentale: stanco di vedere uno scheletro “passeggiare” per casa, mi afferrò e mi mise letteralmente con le spalle al muro. Forse quel gesto era ciò che desideravo più di ogni altra cosa al mondo, mentre nella malattia rifiutavo chiunque volesse avvicinarmi, e spronarmi. Questo è stato il mio punto di partenza, che mi spinse subito alla ricerca di un ottimo centro per la cura dei DCA. Trovai il mio supporto all’Aidap di Roma dove venni seguita per cinque anni dalla Dottoressa Maria Grazia Rubeo, che mi ha aiutato sia sul piano alimentare che psicologico. Dopo cinque anni di dura terapia ho ripreso di nuovo la mia vita in mano, ed il resto è una storia meravigliosa e bellissima da raccontare, grazie anche all’uomo che mi sta al fianco e che mi ama ogni giorno di più».
Che tipo di lavoro hai fatto per cambiare il tuo rapporto con il cibo?
«Il lavoro svolto con la Dottoressa non è stato facile. Innanzitutto, abbiamo lavorato sul fatto di riprendere il peso perso e questa è stata la nota più dolente. All’inizio è stato di grosso impatto accettare il cambiamento fisico e guardare la mia figura allo specchio, nonostante fossi cosciente della malattia. Il primo giorno di terapia la Dottoressa mi fece un discorso, sottolineando le gravi conseguenze che il disturbo alimentare aveva provocato ai miei organi; ho avuto paura. Non ero a conoscenza di quanto il mio organismo fosse compromesso e quando ho avuto i risultati di tutti i controlli effettuati per me è stato il colpo più grande. Si era affacciata la paura di non poter ritornare ad essere una persona normale. Mi sono tranquillizzata solo sapendo che con una giusta cura ed una corretta alimentazione tutto si poteva in gran parte risolvere, anche se purtroppo alcuni problemi li porto tutt’ora con me; ci convivo con serenità. Ho eliminato le abbuffate, interrompendo i lunghi digiuni che mi inducevano ad assumere il cibo come una medicina, come avveniva nel periodo della malattia».
Qual è stato il senso del lavoro psicologico con la tua terapeuta?
«Ho dovuto lottare tanto: la mia mente si opponeva quando vedevo la mia figura cambiare allo specchio, e gradualmente andava assumendo un aspetto di normalità. Mi guardavo e riguardavo per mettere a “tacere” i miei stati di ansia. Mi sottoponevo a questo nuovo “studio” di me stessa, finché riuscivo a convincermi che non sarei mai diventata “grassa” seguendo una corretta alimentazione. Dovevo ascoltarmi, cosa che non avevo mai fatto, ed imparare a gestire le emozioni. La dottoressa mi ha insegnato delle tecniche che mi sono state molto utili per raggiungere l’obiettivo, cioè l’accettazione del mio corpo. Il supporto della Dottoressa è stato fondamentale, soprattutto nel comprendere che tutto dipendeva solo da me: se avessi voluto indietro la mia vita avrei dovuto impegnarmi per mettere in atto nuovi comportamenti. Ho lavorato soprattutto sulla sfera relazionale e sociale, dato che durante la malattia mi ero totalmente isolata da tutto il resto del mondo. Piano piano ho fatto progressi e nel frattempo portavo avanti il lavoro psicologico, insieme alla mia terapeuta, per capire le cause della malattia e la radice da cui era scaturita. Abbiamo compreso anche questo e capito come evitare di compiere alcuni errori. Una cosa che è stata di grande aiuto nel mio lungo percorso di terapia è stato il diario alimentare e quello emozionale. Potevo trascrivere tutto ciò che sentivo mentre mangiavo, come anche gli episodi che mi accadevano nel quotidiano, per comprendere ancor di più dove poter intervenire e non essere più disturbata da eventi che avrebbero causato un calo dell’autostima, che del resto stavo riacquistando giorno dopo giorno. Piccole tecniche, ma efficaci, che nel corso del tempo hanno dato ottimi risultati».
Quanto è importante l’aiuto, e perché la malattia impedisce di accettarlo?
«Mio fratello Graziano, in particolare, ha sofferto molto per la mia malattia e prima che io prendessi consapevolezza della situazione, ha lottato insieme alla mia famiglia per trovare una soluzione al problema. Ma come ho già accennato, io rifiutavo ogni forma di aiuto, reagendo ogni volta anche con gesti aggressivi nei confronti di chi mi offriva un sostegno. Avveniva questo anche nei confronti delle amiche. È comprensibile che coloro che mi stavano intorno, vedendo come rispondevo, se ne stavano in silenzio e si mettevano da parte per paura. Così ha fatto mio fratello per anni, finché un giorno non ha più resistito a un martirio che lo logorava dentro e mi ha scosso forte, pur non comprendendo la sofferenza che mi aveva imprigionata totalmente in me stessa. Era come se desiderassi tanto quel gesto di aiuto, brutale e concreto, seppur credevo che nessuno lo avrebbe mai più fatto a causa delle reazioni che avevo avuto in passato. Quando mio fratello mi ha afferrata scotendomi, all’improvviso mi sono sentita libera e compresa nello stesso istante. Libera perché non nascondevo finalmente più la mia malattia di fronte agli altri, e compresa perché non ero più sola, come credevo che fossi. Ho ricevuto la spinta per intraprendere un percorso di guarigione. Ho abbracciato mio fratello e sono scoppiata a piangere. Da quel momento avevo già capito che potevo farcela a guarire. L’affetto della mia famiglia, devo dire che è stato un ottimo supporto per guarire. La mia famiglia, causa del mio disturbo e sostegno per la mia guarigione!».
Come possono i genitori affrontare la malattia insieme ai propri figli?
«Per un genitore non è facile affrontare la malattia insieme ai propri figli, in quanto si ha sempre paura di sbagliare mettendo in atto comportamenti inadeguati, e soprattutto di ricevere un rifiuto. Nei miei incontri mi sono trovata spesso a dialogare con delle mamme che si trovavano a dover affrontare un problema così importante. La pandemia ha poi reso più complessa la condizione sia di coloro che già stavano seguendo un percorso terapeutico, sia di coloro che avrebbero voluto chiedere un supporto medico. Vorrei suggerire a questi genitori di stare vicino ai loro figli nella malattia, cercando di trovare un equilibrio nel rapporto: occorre non assecondare troppo le loro richieste, e al contempo evitare di rimproverarli in modo irruento sul loro comportamento alimentare. Credo sia necessario, soprattutto, che i genitori si confrontino con il professionista che sta seguendo il figlio. Ogni ragazza e ragazzo mette in campo modalità e comportamenti diversi, è quindi di fondamentale importanza che il terapeuta fornisca un supporto affinché venga instaurato e mantenuto un dialogo tra genitori e figli, per cui questi ultimi non di sentano “abbandonati”. Si tratta comunque di un lavoro difficile a causa della difficoltà ad esternare le emozioni, che i ragazzi tendono a tenere dentro. Suggerisco quindi di non rinunciare mai a percorrere la strada del dialogo, poiché parlare è di grande aiuto. È necessario supportare i figli con fermezza ma astenendosi dall’assumere atteggiamenti ostili che possono generare allontanamento e chiusura, e con dolcezza affinché i ragazzi sentano meno pesante il dolore dell’anima».
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