Un recentissimo studio pubblicato dal Trevor Project ha evidenziato come i giovani LGBTQ+ siano maggiormente a rischio di sviluppare disturbi alimentari e come ciò possa quadruplicare il rischio di suicidio. L’analisi di Carlo Alfaro, pediatria e socio Amigay aps
Anoressia, bulimia, binge eating, alimentazione notturna, picacismo, sono solo alcune manifestazioni dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) che, stando agli ultimi dati diffusi dalla Società Italiana per lo Studio dei DCA, in pandemia sono aumentati del 30%, con un +50% di richieste di prime visite.
«Un recentissimo studio pubblicato dal Trevor Project, centro americano di ricerca che si occupa di fornire i più ampi e diversificati sondaggi sullo stato della salute mentale delle persone queer, ha evidenziato come i giovani LGBTQ+ siano maggiormente a rischio di sviluppare disturbi alimentari e come ciò possa influire sulla loro vita e sul rischio di suicidio», spiega Carlo Alfaro, dirigente di pediatria presso Unità operativa complessa di pediatria ospedali Riuniti penisola sorrentina e socio Amigay aps, l’associazione nazionale delle problematiche sanitarie delle persone LGBT+.
Il Trevor Project ha raccolto i dati attraverso un sondaggio online che ha coinvolto 34.759 giovani LGBTQ+. Ai partecipanti è stato chiesto: «Ti è mai stato diagnosticato un disturbo alimentare?». Tre le opzioni di risposta: no; no, ma penso che potrei averne una; sì. Il 9% degli intervistati, che ha un’età compresa tra i 13 e 24 anni, ha affermato di aver ricevuto una diagnosi di disturbo alimentare, mentre il 29% sospetta di poterne soffrire pur non avendo ricevuto una diagnosi ufficiale.
Ma non è tutto. Tra i giovani a cui era stato diagnosticato un disturbo alimentare è emerso anche un rischio quattro volte maggiore di suicidio. «Uno dei problemi più diffusi tra i giovani LGBTQ+ è il minority stress, ovvero lo stress delle minoranze. Una sofferenza che scaturisce da emarginazione, atti di bullismo, violenze sia fisiche che psichiche a cui, spesso, sono sottoposti – aggiunge Alfaro -. Chi rimane troppo a lungo nella posizione di vittima finisce per convincersi di avere qualcosa di sbagliato, al punto da arrivare a credere di meritare i maltrattamenti subiti. Le ripercussioni sul benessere complessivo, sia fisico che psicologico, sono inevitabili. E i disturbi del comportamento alimentare ne sono un’eclatante manifestazione, spesso associati a problemi di insicurezza e bassa autostima».
Tuttavia, anche chi non hai mai subito alcuna forma di violenza può ammalarsi di disturbi del comportamento alimentare. «Tra La popolazione LGBTQ+ è molto diffusa una subcultura che valorizza l’estetica in modo estremo. Questo significa che la bellezza e la perfezione sono spesso considerate valori assoluti e imprescindibili, necessari per essere amati e per piacere – sottolinea il pediatra -. Di contro, c’è chi invece, preferirà puntare ad una completa svalutazione di sé allo scopo di sentirsi meno attraente».
Atteggiamenti che, ancora una volta, trovano conferma nei dati. «Nei maschi gay c’è una maggiore incidenza di disturbi del comportamento alimentare: il 40% dei pazienti anoressici di sesso maschile è omosessuale. Spesso rifiutano il cibo per minimizzare i propri caratteri sessuali secondari, come i muscoli. Per lo stesso motivo, tra le donne lesbiche c’è una grande incidenza di obesità, bulimia e abbuffate compulsive: s’ingrassa per mascherare la femminilità, per nasconderla sotto un aspetto più mascolino o neutro. Tra la popolazione transgender, invece, sono molto più diffusi i disturbi che riguardano l’alterazione dell’immagine corporea, come la dismorfofobia», dice Alfaro.
La letteratura scientifica che analizza la prevalenza dei disturbi alimentari nella popolazione LGBTQ+ è davvero ampia. «Molti ricercatori si sono concentrati sul fenomeno fin dagli anni ’70. Purtroppo, però, si tratta di studi tutti effettuati oltreoceano. In Italia non abbiamo ricerche di questo, tipo poiché non esiste l’anagrafica inclusiva. L’anagrafica consente la scelta solo tra M o S – maschio o femmina – e non la distinzione di coloro che non si riconoscono né nell’uno, né nell’atro genere. Sarebbe un grande passo in avanti permettere, come già accade in America, al momento dell’anamnesi di specificare l’identità sessuale della persona. Così come, per offrire una cura sempre più personalizzata e individualizzata, attraverso la medicina di genere, sarebbe opportuno considerare non solo le differenze biologiche, fisiologiche e di risposta alle terapie tra il genere maschile e quello femminile, ma in relazione al terzo genere, quello – conclude lo specialista – delle identità sessuali minoritarie».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato