Il professore ordinario di patologia generale dell’Università degli studi di Milano: «Vaccinare tutta la popolazione è la priorità assoluta: le varianti nascono tra le persone infette non vaccinate. Omicron non sarà l’ultima»
«Accorciare troppo la distanza tra la seconda e la terza dose potrebbe rendere necessario un quarto richiamo». Così Sergio Abrignani, professore ordinario di Patologia generale all’università degli studi di Milano, commenta la decisione del Regno Unito di offrire la dose booster, tra i 18 e i 39 anni, a tre mesi dalla seconda. Il Comitato congiunto per la vaccinazione e l’immunizzazione inglese (JCVI) ha puntato su questa strategia per contrastare la diffusione della nuova variante Omicron.
«La terza dose, cosiddetta booster – continua Abrignani – serve ad innescare una memoria a lungo termine. Farla troppo precocemente potrebbe vanificare questo obiettivo, rendendo così inevitabile una dose ulteriore, la quarta appunto».
Che questa tipologia di vaccini sia in grado di attivare una memoria immunitaria all’interno del corpo umano è un dato di fatto. Più difficile stabilire quanto possa durare questo “ricordo”. «La memoria immunitaria prodotta da altri vaccini, come quello contro l’Epatite B o lo Pneumococco, varia da cinque a dieci anni. Quanto durerà quella da vaccino anti-Covid lo scopriremo solo valutandone gli effetti, anno dopo anno. Anche se, ora, più che chiedersi quanto a lungo saranno protetti i vaccinati con tre dosi, dovremmo occuparci di risolvere un altro problema, più grande: vaccinare chi di dosi non ne ha ricevuta nemmeno una».
Anche se la decisione del governo inglese dovesse mostrarsi utile a contenere la diffusione della nuova variante Omicron, è molto probabile che ne arrivino delle altre. «Le varianti – spiega Abrignani – nascono tra la popolazione infetta non vaccinata. Negli ultimi dodici mesi ne sono circolate ben tre». E nonostante i conseguenti allarmismi, dalla comparsa di queste nuove varianti di preoccupazione qualcosa è stato appreso: «Abbiamo imparato quali sono le tre domande fondamentali alle quali gli scienziati devono rispondere, nel minor tempo possibile, dal momento in cui una nuova variante viene isolata. Innanzitutto, se è già più diffusa di quelle, fino ad allora, ritenute dominanti. Due, se è capace di originare una patologia più grave e, soprattutto, se la risposta immunitaria indotta dai vaccini resta adeguata».
Aldilà delle risposte che si otterranno di volta in volta analizzando le singole varianti, comprese quelle che attendiamo sulla variante Omicron, qualche dato è ormai certo. «Possiamo affermare che il coronavirus Sars-CoV-2, come tutti i coronavirus, ha un certo livello di mutazione. Ma che questa sua capacità di mutare, se comparata a quella di altri virus, non appare elevatissima. Tanto che il vaccino originale (precedente alle tre varianti circolate nell’ultimo anno) – dice Abrignani – risponde ancora abbastanza bene».
Ma la straordinarietà del vaccino anti-Covid non risiede soltanto nella capacità protettiva che sta mostrando in questi mesi: «Rappresenta un cambiamento epocale – assicura il professore -. Finora l’antigene vaccinale veniva prodotto esclusivamente in laboratorio, per poi essere iniettato nell’uomo. I vaccini attualmente utilizzati, invece, i cosiddetti “genetici”, offrono le informazioni alle nostre cellule, attraverso un vettore virale (come l’adenovirus di AstraZeneca) o gli Rna messaggeri (di Moderna e Pfzer), necessarie a produrre l’antigene vaccinale. In altre parole, ognuno di noi, con le proprie cellule, “crea” il proprio vaccino all’interno del proprio corpo».
Ma i primati dei vaccini anti-Covid non finiscono qui: «Non era mai accaduto prima che la popolazione fosse vaccinata con una pandemia ancora in corso. Una novità assoluta – conclude il patologo – che ci condurrà anche ad una rivalutazione dei concetti immunologici di base».
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