Secondo la ricerca di Oxford non sempre il distanziamento deve attenersi a 1 o 2 metri. Con le influenze ambientali in alcuni contesti il rischio è maggiore, in altri minore. L’invito a rielaborare i parametri per favorire un ritorno alla normalità
Il distanziamento è tra le più importanti misure adottate per controllare la diffusione di Covid-19. Ora uno studio dell’Università di Oxford pubblicato sul British Medical Journal mette però in discussione la metratura corretta. Uno o due metri tra le persone non sarebbero abbastanza per assicurare il mancato contagio, in quanto calcolati sulla base di una nozione ormai obsoleta della dimensione delle goccioline respiratorie.
Si trascurerebbe in questo modo, secondo Nicholas R. Jones dell’Università di Oxford, la fisica delle emissioni respiratorie. I droplets (goccioline) sono spostate da una nube di gas umido e caldo esalata dal soggetto che tossisce o starnutisce. Si tratta di un mix che le mantiene molto concentrate mentre le trasporta, molto rapidamente e per molti metri. Quando la spinta propulsiva della nuvola di gas rallenta, diventano poi importanti gli elementi ambientali: vento, flusso di aria e tipo di attività che si sta svolgendo. Insieme alla carica virale dell’emettitore, con durata dell’esposizione e la suscettibilità dell’individuo potenzialmente contagiabile.
La ricerca propone di eliminare regole troppo rigide sulla distanza fisica, ma di adattare le raccomandazioni ai molteplici fattori di rischio. Una scelta che porterebbe, secondo gli autori, a una maggiore libertà nei contesti a basso rischio e contemporaneamente a una maggiore protezione in quelli più compromessi. In modo da favorire un più rapido ritorno alla normalità.
Si trovano, tra i dati raccolti, anche le origini della regola dei due metri: antiche e risalenti al XIX secolo. Nel 1987, si scrive, «Flugge propose una distanza di sicurezza di 1-2 m basata sulla distanza sulla quale le goccioline visibili campionate contenevano agenti patogeni». Uno studio del 1948 rilevava che il 65% dei partecipanti produceva goccioline di grandi dimensioni che arrivavano a un massimo di 1,7 metri. Dimenticando che nel 10% dei casi, però, la distanza arrivava a 2,9 metri. In una recente revisione, otto dei 10 studi coinvolti hanno mostrato che la proiezione orizzontale dei droplets può arrivare oltre i 2 metri. Specie in quelli fatti su epidemie virali come Mers e influenza aviaria.
Anche la divisione sulle dimensioni delle goccioline sarebbe obsoleta, secondo i dati raccolti. Finora la letteratura scientifica ha mostrato come goccioline grandi cadano più rapidamente di quanto non evaporino e atterrino entro i due metri dall’emittente. Le piccole, invece, evaporano più facilmente e sono invisibili a occhio nudo. Senza flusso d’aria non si muovono lontano, ma con esso possono muoversi su distanze maggiori.
Si trascura così, insiste il lavoro di Jones, la scienza contemporanea sulle esalazioni respiratorie. Le dimensioni delle goccioline si alternano continuamente e i fattori contestuali e ambientali sono sempre presenti. Dunque affidarsi a rilevazioni che non ne tengono conto significa esaminare solo una parte dei rischi.
Nelle ricerche dedicate alla trasmissione di Sars-CoV-2 l’aria intorno ai pazienti Covid-19 viene campionata. Sette studi ospedalieri hanno riportato che almeno un campione trasportato dall’aria è risultato positivo al virus. Nessuno degli studi effettuati nelle comunità ha riportato campioni d’aria positivi, sebbene uno abbia continuato a raccogliere campioni fino a 17 giorni dopo che il soggetto contagiato ha lasciato la stanza.
Si trattava di studi piccoli ed eterogenei; tuttavia non sembra possibile escludere la trasmissione del virus per via aerea, sebbene l’esistenza del rischio di trasmissione della malattia non sia confermata.
Espirare, cantare, tossire e starnutire generano nuvole di gas calde, umide e ad alto slancio di aria espirata contenenti goccioline respiratorie. Ciò sposta le goccioline più velocemente rispetto ai tipici flussi di ventilazione dell’aria di fondo, le mantiene concentrate e può estendere il loro raggio fino a 7-8 metri in pochi secondi. Anche i modelli specifici del flusso d’aria, e non solo la ventilazione media e i cambi d’aria, all’interno degli edifici sono importanti per determinare il rischio di esposizione e trasmissione. Un caso clinico di un’epidemia in un ristorante in Cina ha descritto 10 persone all’interno di tre famiglie infettate per più di un’ora, a distanze fino a 4,6 metri senza contatto fisico diretto. Il modello di trasmissione era coerente con il modello del flusso d’aria di ventilazione localizzata interna transitoria.
Le influenze ambientali sono complesse e probabilmente si rafforzano a vicenda. Ciò è dimostrato, ad esempio, negli impianti di confezionamento della carne, dove i focolai sono stati attribuiti alla combinazione di alti livelli di contagio dei lavoratori, scarsa ventilazione, condizioni di lavoro anguste, rumore di fondo (che porta a gridare) e scarsa aderenza all’uso della maschera. Situazioni di rischio a più fattori simili a questa potrebbero verificarsi in altri ambienti interni affollati e rumorosi, come pub o locali con musica dal vivo.
Le regole di distanziamento fisico sarebbero più efficaci se riflettessero livelli di rischio graduali. «Nelle situazioni a più alto rischio (ambienti interni con scarsa ventilazione, alti livelli di occupazione, tempo di contatto prolungato e nessun rivestimento per il viso, come un bar o un night club affollato) è necessario prendere in considerazione una distanza fisica superiore a 2 metri e la riduzione del tempo di occupazione», si legge. È probabile che una distanza meno rigorosa sia adeguata in scenari a basso rischio. Le persone con sintomi tendono ad avere una carica virale elevata e più frequenti esalazioni respiratorie violente.
È necessaria, conclude lo studio, una ricerca urgente per esaminare tre aree di incertezza: «la durata limite delle esposizioni in relazione alla condizione interna, l’occupazione e il livello di diffusione virale (5-15 minuti), che non sembra essere supportato da prove; lo studio dettagliato dei modelli di flusso d’aria rispetto alla sorgente infetta e la sua concorrenza con lo sfiato medio; e gli schemi e le proprietà delle emissioni respiratorie e dell’infettività delle goccioline al loro interno durante varie attività fisiche».
La distanza fisica dovrebbe essere vista come solo una parte di un più ampio approccio di salute pubblica per contenere la pandemia di Covid-19. Da implementare insieme a strategie combinate di «gestione persone-aria-superficie-spazio», compresa l’igiene delle mani, la pulizia, la gestione dell’aria e dispositivi di protezione adeguati, come le mascherine.