Lo rivela la sperimentazione dell’Università di Washington, ma per la soluzione resta in pole l’Okairos di Pomezia
E’ una corsa contro il tempo, ormai, quella che vede impegnati ricercatori e scienziati di tutto il mondo nella ricerca di un vaccino contro Ebola.
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, durante il convegno sulle vaccinazioni tenutosi a Roma nei giorni scorsi, ha rassicurato circa “l’accelerata dell’Europa e delle Autorità sanitarie mondiali nella messa a punto di un vaccino efficace e sicuro” che possa essere quindi prodotto e distribuito su larga scala. In pole position la soluzione, tuttora in fase sperimentale, ad opera del team italiano della Okairos. Alle parole del ministro fanno eco quelle del direttore generale dell’Aifa, Luca Pani, che nella medesima sede ha sottolineato la necessità che “i test siano fatti secondo le regole seguendo una sperimentazione clinica precisa”.
Gli sforzi di esperti e scienziati però non si concentrano solo sul vaccino, ma anche su come l’organismo umano reagisce e combatte la presenza del virus. Uno studio coordinato dai ricercatori dell’Università di Washington, in collaborazione con il National Institutes of Health e l’ateneo della Carolina del Nord, ha utilizzato topi geneticamente modificati in laboratorio per riprodurre le caratteristiche principali della malattia nell’uomo. Scopo dell’esperimento è stato valutare il ruolo giocato da particolari caratteristiche genetiche nella maggiore o minore aggressività del decorso di Ebola. La scoperta? Guarire o morire di Ebola è perlopiù questione di geni. Una rivelazione che, si spera, potrebbe tornare utile proprio nella produzione di un vaccino.
Intanto in West Africa emergono con violenza le conseguenze di un disastro che non è solo sanitario e umanitario, ma economico. L’epidemia sta imponendo costi esorbitanti a Paesi già disastrati, ora letteralmente in ginocchio. Gli orfanotrofi sono al collasso e la crisi alimentare è dietro l’angolo; per evitarla, saranno necessari ancora più fondi messi a disposizione dalla comunità internazionale. La disoccupazione in Liberia e in Sierra Leone sta toccando cifre vertiginose: il lavoro agricolo si è drasticamente ridotto e il cordone sanitario – ovvero la chiusura dei confini – ostacola il commercio e l’entrata dei generi alimentari. I pochi reperibili costano troppo, in un circolo vizioso che, purtroppo, non accenna a spezzarsi.