Il monito dello Spallanzani e di Medici Senza Frontiere: “Alto il rischio di colpi di coda”. La formazione per il personale sanitario resta l’unica strada per arginare il pericolo
Ebola non è finito. Non ancora. Il virus vive nelle foreste africane da più di quarant’anni, e da più di quarant’anni fa ciclicamente la sua comparsa, servendosi di questo o quell’ospite, per dispiegare la sua furia mortifera tra le popolazioni locali. I suoi più grandi complici? La disinformazione e la carenza dei più elementari servizi igienici e sanitari. Deficit atavici, che difficilmente troveranno soluzione nel prossimo futuro.
Per queste ragioni sembra utopistico sperare in una sconfitta definitiva di Ebola. L’unica speranza è riuscire quanto meno a gestirlo.
L’avvertimento proviene da quella che si è dimostrata, sul campo, una delle punte di eccellenza internazionale: l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, che ha gestito al meglio il primo (e unico) caso di Ebola in Italia. È il direttore scientifico dello Spallanzani, il professor Giuseppe Ippolito – che proprio nei giorni scorsi ha sottolineato ai nostri microfoni che si tratta di un “virus per il quale, ad oggi, non esistono trattamenti nè vaccini di comprovata efficacia” – ad evidenziare in un intervento sul Sole24Ore l’importanza di non abbassare la guardia di fronte a Ebola.
“L’epidemia non può dirsi debellata come ha ribadito l’Oms il 10 Aprile 2015 in occasione della 5a riunione del comitato di emergenza quando ha affermato che l’epidemia continua ad essere una emergenza di sanità pubblica internazionale. Questo in quanto i casi continuano a interessare più aree dei paesi colpiti: ancora 8 prefetture in Guinea e Sierra Leone. Anche se l’area si è ridotta rispetto ai 55 distretti che riportavano i casi all’inizio dell’epidemia in Guinea, Liberia e Sierra Leone”, scrive Ippolito.
La malattia ha rallentato, è ora sotto controllo, come ha dichiarato anche Gino Strada nei giorni scorsi mettendo in guardia la sua organizzazione e gli altri sanitari dal “rischio dei colpi di coda”. Dietro al carico di terrore e morte che in un anno il virus ha lasciato dietro di sé si può nascondere l’ennesimo scherzo crudele ai danni di popoli messi già duramente alla prova da calamità di ogni genere, sanitarie e non.
Ma c’è un aspetto che, più di ogni altro, continua ad avere grande rilevanza: la conoscenza. La formazione dei medici e l’informazione dei cittadini di tutto il mondo è un elemento fondamentale per prevenire e gestire Ebola e altre emergenze di questo tipo. Un bisogno raccolto dai giornali e fotografi più importanti del globo. Basti pensare che a fine 2014 la rivista americana Time ha nominato, quale “persona dell’anno”, gli “Ebola fighters”, ovvero gli operatori sanitari che hanno “rischiato, perseverato, si sono sacrificati e hanno salvato vite umane”. Più di recente, invece, due fotografi (l’australiano Daniel Berehulak e l’americano John Moore) hanno vinto rispettivamente uno dei premi Pulitzer e l’ “Iris d’or” 2015 grazie ai loro lavori dedicati ai tragici effetti del virus sulle popolazioni dell’Africa occidentale colpite. E che medici e cittadini vogliano essere informati è un fatto certo, testimoniato dai più recenti trend di Google che vedono le ricerche relative al tema Ebola costantemente tra i primi posti.
Tanto è stato fatto negli ultimi mesi, grazie al supporto delle organizzazioni internazionali, con Medici Senza Frontiere in prima linea e insignita nei giorni scorsi di un premio per l’impegno nella lotta al virus da parte della società europea di microbiologia clinica e della malattie infettive (Escmid). Tanto, però, c’è ancora da fare. Fondamentale sarà continuare a prevedere – ed implementare – un’adeguata formazione per gli operatori sanitari impegnati sul campo: proprio la formazione, di altissimo profilo, è stata l’elemento che ha fatto la differenza, e che ha permesso all’Istituto Spallanzani di salvare la vita a Fabrizio Pulvirenti, il paziente zero italiano, medico di Emergency.