Lo studio dimostra che la somministrazione peri-procedurale di edoxaban in pazienti europei ultrasettantenni affetti da fibrillazione atriale o tromboembolia venosa sottoposti a procedure diagnostiche o terapeutiche è associato ad un rischio pari allo 0,4% di emorragie maggiori e di ictus o ischemia dello 0,6%
Una nuova importante indicazione sull’uso degli anticoagulanti per i pazienti affetti da fibrillazione atriale o tromboembolia venosa. È quello che emerge dallo studio EMIT, presentato al congresso della EHRA – European Heart Rhythm Association che si è svolto a Lisbona nei giorni scorsi.
Lo studio, effettuato su 1155 pazienti provenienti da sette Paesi europei diversi, ha stabilito che la somministrazione peri-procedurale di edoxaban nella pratica clinica di routine, in pazienti anziani affetti da fibrillazione atriale o tromboembolia venosa sottoposti a procedure diagnostiche o terapeutiche, è associata a una bassa incidenza di sanguinamento e ad una bassa incidenza di complicanze tromboemboliche o ischemiche.
Lo studio parla italiano grazie alla voce del cardiologo del Policlinico di Bari Paolo Colonna, che è stato tra i protagonisti dell’evento di presentazione organizzato da Daiichi Sankyo nella capitale portoghese. Colonna è un “cervello di ritorno”: dopo quattro anni all’estero ha scelto la sua città, Bari, per fare il medico e occuparsi di ricerca.
Nello specifico, i risultati dello studio sono stati incoraggianti: il sanguinamento maggiore si è verificato, da cinque giorni prima a 30 giorni dopo un intervento o un accertamento diagnostico, solo nello 0,4% dei casi. L’incidenza di emorragie è stata bassa, anche nelle 280 procedure ad alto rischio (secondo la classificazione EHRA), con lo 0,7% (2 su 280) di sanguinamenti maggiori e l’1,4% (4 su 280) di sanguinamenti non maggiori clinicamente rilevanti.
Un risultato importante, se si pensa che finora i dati disponibili sulla gestione peri-procedurale dei pazienti a cui è stato prescritto un NOAC come l’edoxaban e i risultati clinici associati erano limitati. Indicazioni preziose per i clinici, che ora avranno elementi in più per stabilire come comportarsi di fronte a pazienti che devono fronteggiare un intervento e sono a rischio di eventi ischemici o tromboembolici.
Lo studio EMIT-AF/VTE fa parte del programma di ricerca clinica su edoxaban (EDOSURE) che nel 2019 fornirà prove significative a sostegno dell’uso di edoxaban nella pratica clinica, in particolare per i pazienti anziani.
Professor Colonna, lei presenta lo studio EMIT. Qual è il focus di questo studio e cosa aggiunge nella gestione degli anticoagulanti orali e in particolare dell’edoxaban?
«Spesso i colleghi ci chiedono quando interrompere l’anticoagulante prima di un intervento, e spesso noi dobbiamo rispondere senza avere dei dati pratici e sicuri, ma solamente basati su delle raccomandazioni di esperti. Questo è stato il punto che ci ha spinto ad intraprendere questo studio su oltre 1100 pazienti che sono stati sottoposti a una procedura diagnostica terapeutica, quindi un intervento chirurgico o una diagnosi invasiva. Questi pazienti erano a diverso rischio di avere una emorragia o una ischemia: l’età media era pari a 72 anni e metà era over 75, quindi pazienti difficili da trattare ma che corrispondono a coloro che conosciamo ogni giorno. Le procedure chirurgiche prese in considerazione e analizzati nello studio EMIT andavano dall’estrazione dentaria multipla all’intervento chirurgico di diverso genere. La particolarità era che i clinici erano indirizzati ad interrompere l’edoxaban in due terzi dei pazienti prima dell’intervento, e a continuarlo nel restante terzo, per gli interventi a più basso rischio nei pazienti con miglior situazione clinica. I risultati sono stati decisamente molto buoni: il rischio di emorragie maggiori era solo dello 0,4%, in 30 giorni. Un rischio vicinissimo a quello dell’intervento in sè e quindi molto ridotto. Il rischio di ictus o ischemia era poi dello 0,6%, quindi anche questo molto basso».
Quindi cosa aggiunge alla pratica clinica questo studio?
«Possiamo raccomandare al clinico di interrompere l’edoxaban per il più breve tempo possibile e, con queste precauzioni, possiamo rassicurare almeno al 99,6% che non ci saranno eventi emorragici maggiori. Questo significa aggiungere un tassello ad edoxaban sulla sicurezza non solo nel paziente di ogni giorno, ma anche nel paziente che viene operato per una chirurgia a basso, medio o elevato rischio e anche per le chirurgie d’urgenza che venivano incluse in questo studio».
Quindi ci sono margini per il miglioramento della gestione dell’anticoagulazione nel paziente in procinto di intervento?
«I margini ci sono ma sono molto ristretti perché oggi possiamo considerare di aver raggiunto un punto che può essere considerato decisamente ottimale. È difficile scendere al di sotto di queste soglie di rischio ischemico ed emorragico, quindi possiamo dire oggi che i nostri miglioramenti possono essere nella gestione del paziente, ma sicuramente i nuovi anticoagulanti hanno dato un’ampia sicurezza ed efficacia. Quindi è fuor di dubbio che non si debba più usare un ponte con eparine a basso peso molecolare che prima si era soliti usare; oggi con questi farmaci e con la giusta finestra di interruzione possiamo agire molto meglio».