Intervista a Rossella Miccio (Emergency): «Abbiamo lavorato insieme per mesi in Sierra Leone»
Da quando l’incubo è tornato ci siamo sentiti spesso per telefono. È sereno e ha grande fiducia nello staff dello Spallanzani che lo sta assistendo». Rossella Miccio, coordinatrice dell’Ufficio umanitario di Emergency, l’Ebola l’ha guardata negli occhi spesso nell’ultimo anno.
«Noi lavoravamo in Sierra Leone già prima dell’epidemia di Ebola, e siamo stati tra i primi nel Paese ad attivare all’interno degli ospedali “non Ebola” strutture di protezione, prevenzione e controllo delle infezioni. Già dall’inizio del 2014, quando ancora Ebola non era arrivata in Sierra Leone ma interessava i Paesi limitrofi, noi avevamo già le nostre zone di isolamento e una serie di procedure per le quali era stato formato il personale nazionale ed internazionale».
La dirigente di Emergency ha conosciuto a febbraio l’infermiere di Sassari, il 37enne che sta vivendo in queste ore la sua battaglia contro il terribile virus che ha già ucciso oltre 11mila persone, ma che l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive ha già affrontato e battuto con Fabrizio Pulvirenti, il medico catanese ammalatosi a novembre 2014.
«È una persona solida e molto preparata. Con lui abbiamo vissuto le fasi più difficili e più gratificanti della nostra attività in Sierra Leone. I primi casi assistiti nel centro di Lakka e poi la realizzazione e l’apertura del centro di cura per i malati di Ebola di Goderich». Proprio in quest’ultimo centro ha operato principalmente il 37enne sardo, alla sua prima missione come operatore qualificato di Emergency.
Non pensava certo di incontrarlo di nuovo in circostanze così tragiche?
«Sì, sono momenti che non si vorrebbero mai affrontare. Resta, però, il rapporto forte e bello che si è creato nei mesi in cui abbiamo lavorato insieme. Spero che, in questo momento, sapere che siamo tutti qui, vicini a lui, gli dia una marcia in più per superare questa terribile malattia».
Siete riusciti a stargli vicino nonostante ci siano delle misure di sicurezza stringenti?
«Certo, sempre via telefono ovviamente. L’abbiamo sentito quando è rientrato, ci ha immediatamente contattato quando ha sviluppato i primi sintomi, e l’ho sentito fino a poco prima del trasferimento. Era relativamente sereno, considerando la situazione. Fortunatamente è una persona solida».
Dottoressa, la domanda è d’obbligo. C’è qualcosa che non ha funzionato o comunque qualche procedura da rivedere?
«Che qualcosa non abbia funzionato è evidente, dal momento che il contagio c’è stato. Le procedure vengono riviste da noi costantemente, tuttavia l’errore umano o il problema tecnico possono capitare. Ad oggi non risulta esserci stata alcuna esposizione non protetta di cui lui e i suoi colleghi fossero consapevoli, per cui stiamo ancora cercando di capire cosa sia successo».
Il professor Ippolito l’ha sottolineato in varie interviste: la formazione diventa fondamentale in questo frangente, e immagino che voi siate adeguatamente preparati.
«Assolutamente sì. È fondamentale. Proprio in Sierra Leone abbiamo avuto un migliaio di operatori sanitari provenienti da tutto il mondo impegnati in prima linea, e i casi di contagio si contano sulle dita di una mano. Ciò significa che le procedure hanno funzionato e che la formazione del personale medico è stata adeguata. Io stessa – conclude Miccio – sono rientrata dalla Sierra Leone tre settimane fa e mi sono sottoposta all’automonitoraggio di 21 giorni previsto dai protocolli. Ora sto bene e spero di tornare presto in Africa».
A proposito di contagi, dopo il rientro in Italia dell’infermiere contagiato c’è il rischio che essendo stato in contatto con altre persone possa aver diffuso il virus?
«Non credo, perché la malattia diventa contagiosa nel momento in cui si sviluppano i sintomi. Non appena si è reso conto di avere la febbre, si è autoisolato e ha contattato le autorità. Per cui è vero che nei due giorni precedenti aveva condiviso alcuni momenti coi familiari, ma non aveva sviluppato i sintomi, per cui non era contagioso. Teniamo comunque le dita incrociate anche per la famiglia, con cui siamo vicinissimi».
Avete parlato con i familiari, qual è il loro stato d’animo?
«Certamente non sono tranquilli, ma la fiducia nella struttura che lo ospita è grande, come è stato nel caso di Fabrizio Pulvirenti, che è fortunatamente guarito e che ha fornito un precedente importante per compiere passi avanti nel trattamento dell’Ebola».