Oltre il 30% delle persone con epilessia è farmacoresistente che non significa epilessia intrattabile. Si stima che circa il 15-20% dei soggetti farmacoresistenti possa arrivare alla risoluzione delle crisi grazie ad interventi neurochirurgici specificamente mirati
Colpisce oltre il 30% delle persone con epilessia e si manifesta con la persistenza di crisi quando almeno due farmaci anti-crisi appropriati e ben tollerati sono stati sperimentati: è l’epilessia farmacoresistente che oggi si può trattare con diverse possibili soluzioni, dall’intervento chirurgico che nella maggior parte dei casi è risolutivo, alla sperimentazione di farmaci innovativi e alle terapie palliative, come tecniche di neuromodulazione e dieta chetogenica. “Per farmacoresistente – spiega Laura Tassi, Presidente LICE e neurologo presso la Chirurgia dell’Epilessia e del Parkinson del Niguarda, Milano – intendiamo una persona con epilessia che continua ad avere crisi pur avendo provato almeno due farmaci specifici per il suo tipo di epilessia, ben tollerati, somministrati alla massima dose possibile e per un adeguato periodo di tempo, in monoterapia o in associazione con altri farmaci. Tale condizione non è definitiva né irreversibile. In alcuni casi, infatti, può essere avviato un iter per valutare la fattibilità e l’indicazione ad un intervento chirurgico o, laddove questo non fosse possibile, esistono terapie alternative che includono la Stimolazione Vagale, la Deep Brain Stimulation o la dieta chetogenica”.
A volte si può riscontrare una farmacoresistenza falsa o pseudo-farmacoresistenza: “Casi come questi – precisa Oriano Mecarelli, Past President LICE – sono dovuti ad un’errata diagnosi di epilessia, a una scelta inadeguata del farmaco e/o delle sue dosi, a una diagnosi non corretta dal punto di vista sindromico, o ad una scarsa regolarità nell’assunzione della terapia da parte del soggetto. Se non chiarita, questa condizione può protrarsi inopportunamente nel tempo e rendere difficoltosa la gestione della malattia, con accentuazione dei suoi risvolti psicosociali negativi. È pertanto consigliabile che le persone con epilessia, il cui trattamento risulti difficoltoso, vengano valutate presso centri specializzati. Oggi abbiamo la possibilità di ricorrere anche a nuove e innovative terapie con farmaci che possono ‘riaccendere’ la speranza, o comunque ridurre la frequenza e l’entità delle crisi”. Si stima che almeno il 15-20% dei soggetti farmacoresistenti possa trovare beneficio grazie ad un intervento neurochirurgico specificamente mirato e circa il 70% dei pazienti operati ottiene un ottimo risultato in termini di risoluzione delle crisi e, quindi, di qualità di vita (fonte: Guida alle Epilessie 2023).
La terapia chirurgica delle epilessie consiste nella rimozione, quando è possibile senza indurre deficit neurologici, della regione cerebrale responsabile delle crisi, definita zona epilettogena. I dati ottenuti dalle indagini neurofisiologiche di routine (EEG e Video-EEG), dallo studio del tipo di crisi (caratteristiche cliniche) e dalle neuroimmagini (RM), consentono di identificare con precisione la zona epilettogena. Tra i soggetti candidati all’intervento neurochirurgico, meno del 40% necessita di indagini più sofisticate come l’impianto di elettrodi all’interno del cervello per registrare le crisi, procedura denominata Stereo‑EEG. I grandi progressi medici e strumentali consentono ormai di identificare la causa delle crisi in quasi il 90% dei soggetti candidati ad un intervento; in oltre il 50% dei casi si tratta di una malformazione della corteccia.
Le procedure chirurgiche presentano rischi molto bassi (intorno all’1%). Circa il 70% dei pazienti operati ottiene un ottimo risultato con l’intervento: l’assenza di crisi consente di valutare in un secondo tempo di ridurre e sospendere la terapia farmacologica. “La libertà dalle crisi – interviene Carlo Andrea Galimberti, Vice Presidente LICE e Responsabile del Centro per lo Studio e la Cura dell’Epilessia, IRCCS Fondazione Mondino, Pavia – è probabilmente il fattore più influente sulla qualità della vita di una persona con epilessia: essa consente in molti casi di recuperare l’autonomia personale, l’idoneità alla guida di veicoli a motore a un anno dall’intervento, e la possibilità di lavorare o, nei casi pediatrici, di frequentare la scuola, senza gli effetti cognitivi negativi dovuti alle crisi e, talvolta, alla terapia farmacologica”.
Si calcola che in Italia almeno 7-8mila pazienti potrebbero essere operati ogni anno per rimuovere la zona cerebrale responsabile delle crisi epilettiche focali. Tuttavia, a fronte di migliaia di soggetti candidati alla terapia chirurgica dell’Epilessia, ogni anno sono effettuati in tutta Italia non più di 300 interventi neurochirurgici specifici. Un ampliamento e potenziamento dei Centri per la Chirurgia dell’Epilessia potrebbe ridurre i tempi di attesa per poter accedere alla terapia chirurgica. Per le persone con epilessia farmacoresistente che non possono essere operate perché le crisi trovano origine da più zone del cervello o perché l’intervento potrebbe causare danni neurologici rilevanti e permanenti, è possibile ricorrere a terapie palliative che possono ridurre frequenza e intensità delle crisi e magari alleggerire la terapia con farmaci, come la stimolazione vagale, la Deep Brain Stimulation (DBS), e la dieta chetogenica.
La stimolazione vagale consiste nell’invio al nervo vago di stimoli elettrici, tramite un generatore di impulsi posizionato sottocute a livello della clavicola, attraverso un elettrodo applicato chirurgicamente; tale stimolazione (Stimolazione del Nervo vago SNV) può ridurre la frequenza delle crisi e garantire un miglioramento della qualità di vita. Negli ultimi anni sono state messe a punto alcune metodiche che consentono la possibilità di stimolare direttamente, tramite elettrodi impiantati in regioni cerebrali diverse, alcune aree corticali o sottocorticali in grado di modulare e modificare l’attività epilettica. Tali tecniche, eseguibili solo presso Centri altamente specializzati, sono ad oggi riservate a soggetti farmacoresistenti selezionati.
La dieta chetogenica ha dimostrato di migliorare il controllo delle crisi nelle persone con epilessia e viene anche usata per trattare alcune patologie metaboliche quali i quadri di GLUT1 (deficit di proteina di trasporto del glucosio) e PDH (carenza di piruvato deidrogenasi). Variano, in realtà, le formulazioni dietetiche che possono essere utilizzate: dieta chetogenica classica, dieta a base di trigliceridi a catena media e dieta Atkins modificata. La dieta chetogenica classica si basa su un regime nutrizionale contenente un’elevata percentuale di grassi e una ridotta quota di proteine e carboidrati. Essa si propone di indurre uno stato di chetosi cronica che simula sul piano metabolico gli effetti del digiuno. Con questa dieta si obbliga l’organismo a utilizzare i grassi invece del glucosio come fonte di energia, mantenendo deliberatamente elevato lo sviluppo di corpi chetonici. Questo regime alimentare va seguito sotto la supervisione di un epilettologo e un dietista.
Con oltre 60 milioni di persone colpite nel mondo, l’epilessia è una delle malattie neurologiche più diffuse, per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l’epilessia come una malattia sociale. Si stima che nei Paesi industrializzati interessi circa 1 persona su 100: in Italia soffrono di Epilessia circa 600mila persone, ben 6 milioni in Europa. Nei Paesi a reddito elevato, l’incidenza dell’epilessia presenta due picchi, rispettivamente nel primo anno di vita e dopo i 75 anni: in Italia si calcola che ogni anno si verifichino 86 nuovi casi di epilessia nel primo anno di vita, 20-30 nell’età giovanile/adulta e 180 dopo i 75 anni.
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