Salute 22 Maggio 2020 20:14

Fame d’aria – Capitolo 4

Ogni sabato, su Sanità Informazione, il racconto a puntate di una storia vera. Anzi, di più storie, di destini che si incrociano sulla spinta asfissiante di un virus che ci ha separati tutti. Michele è un ragazzo di Acciaroli, località turistica del Cilento. Si sta preparando per la stagione estiva, ma una strana febbre lo costringe a letto

Fame d’aria – Capitolo 4

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Riemerse dall’acqua dopo un paio di minuti scarsi, inghiottendo ossigeno come chi, a digiuno da diversi giorni, addenta una bistecca al sangue. Non era il suo record di apnea, ovviamente: da ragazzino gareggiava con gli amici e lui vinceva sempre. Gli altri, i figli dei borghesi che si concedevano una pausa con la famiglia in quel piccolo paradiso, non erano abituati a stare senza respiro per troppo tempo: al massimo cinquanta secondi, un minuto, non di più. E invece lui, Michele, che ad Acciaroli ci era nato e cresciuto, e che ogni volta che poteva, anche in inverno, andava a farsi un bagno, amava giocare sfidando sé stesso e le capacità dei suoi polmoni: ogni giorno un decimo di secondo in più, mezzo secondo in più, seduto sul fondo, sommerso dal mare. A volte, quando stracciava gli amichetti nelle sfide a chi restava per più tempo sott’acqua, questi dovevano tirarlo su a forza per paura che, nell’enfasi della competizione, ci rimanesse secco.

Ultimamente si sentiva molto più fiacco di prima, forse per via delle sigarette, però in quel caso diede la colpa all’acqua troppo fredda. Stava tremando e risalì di corsa verso la riva. Si coprì con l’asciugamano, si strofinò la testa; quando fu asciutto si rivestì e tornò al motorino. In inverno Acciaroli si svuota e lui la percorse tutta senza incontrare anima viva. Qualche bar era aperto ma ai tavolini non c’era seduto nessuno.

“Non mi sento un granché”, disse entrando in casa alla madre che stava cucinando. “Miche’, ma dovevi per forza andarti a fare il bagno con ‘sto freddo?”, gli chiese. “Ma’, era una bella giornata e mi pareva che faceva caldo”, rispose accasciandosi nel letto. Non si alzò per mangiare con i genitori e la sorellina. Uscì dalla stanza solo quattro giorni dopo, una volta che la febbre e la tosse erano passate. “Uè, Miche’, ti hanno chiamato dall’albergo”, gli disse il padre. “Che vogliono?”. “Non lo so”. “Vabbè, mo’ li richiamo”.

Acciaroli è una piccola vallata, una sottilissima lingua di terra tra la collina e il mare, un minuscolo borgo di pescatori che si era lentamente trasformato, un mattone alla volta, in una meta turistica tra le più frequentate di tutta la Campania. Le piccole abitazioni di pietra diroccata, l’acqua sempre limpida, la bellezza del paesaggio, il cibo genuino e casereccio, ma soprattutto la prospettiva di allontanarsi dalla vita di città per abbracciare, fosse pure per una sola settimana, l’esistenza schietta e semplice dell’umile gente del posto, agli occhi delle famigliole dei professionisti di provincia erano d’un’attrattiva eccezionale.

Visti il successo e la fama che crescevano di stagione in stagione, gli amministratori locali, di concerto con i residenti, decisero che forse era giunto il momento di rendere il posto ancora più attrattivo, rustico sì ma più moderno. Così provarono a restaurare quel quadro, polveroso e qui e lì sbiadito, senza fargli perdere la bellezza e le pennellate originali. E ci riuscirono.

Quel popolo di pescatori si reinventò ed Acciaroli divenne un delizioso paesino brulicante di ristoratori, pizzaioli, baristi, commercianti, albergatori o affittacamere, gestori di locali alla moda o sale giochi, di librerie, profumerie e salumerie, di centri di bellezza e campetti di tennis e calcio. Ma queste attività potevano aprire solo per tre, massimo quattro mesi all’anno, di cui solo due veramente pieni, e l’ossigeno accumulato in quelle settimane doveva bastare anche per tutto il tempo che li separava dalla successiva boccata vitale di turisti. Nelle stagioni fredde, Acciaroli si svuotava e l’economia languiva.

Durante quei mesi Michele faceva qualche lavoretto qui e lì, dava una mano a svuotare i furgoncini che portavano i prodotti nei negozietti di alimentari o faceva il muratore per chi ristrutturava gli appartamenti per i turisti o ne costruiva di nuovi. Ma in estate lavorava solo per l’albergo. Per questo, ogni volta che lo chiamavano, anche in inverno, lui accorreva sempre, qualunque cosa servisse.

Chiusa la telefonata, Michele si vestì in fretta e sfrecciò sul motorino tra i vicoli di Acciaroli fino ad arrivare sulla spiaggia di fronte all’hotel. Poco più in là, di fronte ad un altro albergo, notò un capannello: un uomo per terra con una gamba tra le mani e altre persone che gli stavano intorno e cercavano qualcosa tra la sabbia. C’erano anche due ragazze, che Michele conosceva benissimo, con la divisa della polizia municipale.

“Che è successo?”, chiese alle due. “Dice che stava camminando e lo ha punto una siringa”. “Una siringa? E dove sta?”. “Non si trova”. “E allora come fa a dire che era una siringa?”. Lui intanto continuava a lamentarsi: “Ma l’avete chiamata l’ambulanza? Perché non arriva?”, urlò alle vigilesse. “Deve venire da Vallo della Lucania, ci vuole tempo. Secondo me fa prima a mettersi in macchina e andare là”. “Ma non c’è un ospedale in questo posto?”. “Non c’è. È un paesino, a stento c’è una guardia medica”, intervenne Michele. “E tu chi sei? Che vai trovando? Comunque – riprese il tizio rivolgendosi alle vigilesse –, chi doveva pulire la spiaggia? Quell’albergo lì?”, fece indicandolo con un dito. “Ottimo, appena mi riprendo mi faccio ripagare come nuovo”. “Ma l’albergo è chiuso”, fece ancora Michele. “Ma ti vuoi stare zitto?”, s’intromise quella che probabilmente era la moglie dell’uomo.

Michele, che ancora si sentiva febbricitante, avvertì come un fuoco alle tempie e la testa girargli. Si stava accalorando, così si avvicinò minaccioso alla signora ma un ragazzo, forse il figlio, lo prese di petto: “E mo’ che vuoi tu?”. Una delle due vigilesse, che sapeva che Michele, secco e lungo come un fiammifero, come un fiammifero ci metteva poco ad accendersi, fece in tempo a stringerlo tra le braccia e a portarlo via. “Statti calmo”. “Ma che sta dicendo questo? Che lo ha punto una siringa ma la siringa non c’è, che gliela vuole far pagare agli albergatori ma l’albergo è chiuso”. “Non ti preoccupare – gli rispose la vigilessa –, resta qui che ce la vediamo noi, non ti riguarda la cosa”.

Michele restò lì dappresso qualche altro minuto, osservando in disparte per capire come andasse a finire la storia. Si accese una sigaretta. Non fumava da quando la febbre lo aveva incatenato al letto. Aspirò forte la prima boccata, ma il fumo gli invase i polmoni con una tale prepotenza che il suo corpo, tutto, si contrasse in una serie di colpi di tosse che lo spaventarono, per quanto erano forti e cavernosi.

Nelle giornate allettato la sua temperatura aveva sfiorato i 39 gradi e lui aveva fatto una tale fatica a respirare che il padre aveva ipotizzato più volte una polmonite: “Così t’impari a farti il bagno anche in inverno”. Da piccolo Michele aveva avuto una broncopolmonite ma non ricordava di essere stato tanto male. Per fortuna, però, qualche giorno dopo si era ripreso, o almeno così gli era sembrato.

Lasciò cadere la sigaretta e si piegò, le mani sulle ginocchia, boccheggiando come un pesce spiaggiato. Si accasciò a terra e la vigilessa con cui aveva parlato pochi secondi prima gli si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla e, a pochi centimetri dal suo viso, gli chiese: “Miche’, ma che c’hai, l’influenza?”.

 

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