Salute 30 Maggio 2020 23:20

Fame d’aria – Capitolo 5

Ogni sabato, su Sanità Informazione, il racconto a puntate di una storia vera. Anzi, di più storie, di destini che si incrociano sulla spinta asfissiante di un virus che ci ha separati tutti. Giulia è la figlia dei proprietari di un albergo ad Acciaroli. Passeggiando per le vie di una Roma deserta, racconta ad un’amica tutte le sue preoccupazioni per l’avvicinarsi dell’estate.

Fame d’aria – Capitolo 5

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“Ti ricordi di quando ti ho raccontato di quel signore, chiamiamolo così, che qualche mese fa sosteneva di aver calpestato una siringa sulla spiaggia, una siringa che ovviamente non è mai stata trovata, e che ha fatto causa ai proprietari dell’albergo? Ho parlato con l’avvocato e mi ha detto che, alla fine, dovranno dargli un sacco di soldi solo perché non possono dimostrare che non si è fatto male lì, in una zona di loro responsabilità. Ecco, per noi sarà lo stesso: se qualcuno si sente male nel nostro albergo, gli fanno il tampone e risulta che ha il virus, ma magari non se lo è preso da noi ma in un bar, in una discoteca, camminando per strada o che ne so io, mia madre e mio padre saranno responsabili sia civilmente che penalmente. Quindi, o finiscono in galera o passeranno i prossimi vent’anni a pagare…”.

Era una mattina d’inizio maggio. Giulia e l’amica camminavano per una stradina nel centro di Roma. Entrambe portavano la mascherina e si tenevano a debita distanza l’una dall’altra. Di spazio ce n’era in abbondanza: in giro non c’era nessuno, né pedoni né automobili. Solo ogni tanto sfrecciava un taxi o una volante. I bar, così come i cinema, i negozi d’abbigliamento, i ristoranti, i parrucchieri, erano chiusi. Anche quei monumentali alberghi dalle facciate lussuose e barocche, che accoglievano turisti da decenni, ininterrottamente, trecentosessantacinque giorni all’anno, erano vuoti. Restavano aperti giusto qualche piccolo alimentare e le tabaccherie.

“Aspetta, devo prendere le sigarette”, disse Giulia all’amica. C’erano due persone in fila, ben attente a non avvicinarsi troppo. “E quindi, ammesso che ci faranno aprire, ma come diavolo possiamo fare in una situazione del genere? I miei fanno in continuazione telefonate e riunioni con l’unione dei commercianti acciarolesi. Sono tutti preoccupati. Ad oggi, né il Governo né la Regione ci hanno fatto sapere nulla, zero. Non abbiamo una data di riapertura, a differenza di tutti gli altri esercizi”.

Giulia era la figlia dei proprietari di uno dei principali alberghi di Acciaroli, un tre stelle che affacciava direttamente sulla spiaggia. Uno degli hotel preferiti dai turisti proprio per l’accesso diretto al mare, per il panorama che abbracciava tutta la costa e per le tonalità viola e ocra del tramonto che tutte le sere coloravano le cene in terrazza.

Quella struttura apparteneva alla famiglia di Giulia da diverse generazioni e se la passavano di mano in mano come un corredo nuziale: prima la nonna, poi la madre, dopodiché sarebbe toccata a lei. Fin da piccola era stata abituata a trattare con i dipendenti, a capire come funzionassero la cucina e le ordinazioni ai fornitori, a gestire le prenotazioni e a rapportarsi con i clienti. Durante l’anno, invece, almeno da quando ebbe l’età per farlo, lavorava per conto suo, in giro per l’Europa o a Roma, dove poi tornò a vivere.

Quella mattina, sia Giulia che l’amica erano riuscite finalmente a prendere una boccata d’aria nella Roma deserta, senza traffico, turisti e smog. Sull’autocertificazione che custodivano in tasca (e che quella stessa mattina prima due poliziotti, poi due carabinieri, avevano preteso di vedere), c’era scritto “motivi improrogabili di lavoro”.

“Noi vorremmo riaprire, ovviamente, ma le poche notizie che ci arrivano ci stanno facendo passare la voglia. Per farti fare un’idea, due persone, diciamo marito e moglie, che dormono nello stesso letto, non potranno prendere l’ascensore insieme o fare colazione a meno di un metro di distanza. Assurdo, no? Mettiamo, comunque, che potremo aprire da luglio, anche con regole come questa. Bene, in questo caso apriremmo con tre mesi di ritardo. Chiuderemo ad ottobre, se tutto va bene e il clima lo permetterà? Ottimo, vuol dire che riusciremmo a lavorare quattro mesi scarsi, ma sai che quelli che contano davvero sono solo luglio e agosto. E chiudere noi in quei mesi equivale a chiudere per un anno intero un albergo di Roma. Ad oggi, comunque, siamo a zero. Non abbiamo iniziato nulla, neanche i lavori di ristrutturazione e manutenzione che dobbiamo fare ogni anno prima della stagione. Dal momento in cui ci daranno il via, semmai ce lo daranno, avremo bisogno di almeno un mese per mettere tutte le cose al loro posto. Più tardano a farci sapere qualcosa, meno noi saremo in grado di riaprire quando, e se, potremo farlo. Dobbiamo formare la squadra: chiamare i cuochi, i camerieri, il personale della pulizia. Abbiamo anche dei dipendenti fissi, per tutto l’anno: il direttore, la ragazza che si occupa della reception, il tutto fare, saranno in cinque o sei. Ora sono in cassa integrazione, non possono nemmeno muoversi da casa. Gli altri li assumiamo con contratti stagionali. Loro devono arrivare ad un tot minimo di giorni di lavoro per avere la disoccupazione durante il resto dell’anno, ma anche se cominciassero oggi non riuscirebbero comunque a raggiungerlo”.

Un ragazzo uscì dalla tabaccheria. Entrò una corpulenta donna di mezza età.

“Se non apriamo noi, ad Acciaroli, vuol dire che non apre nessuno in tutta la costiera cilentana, e se non apre la costiera cilentana vuol dire che non aprono neanche le altre costiere. Se non apriamo noi, insomma, non apre nessuno. Così ci salta un anno intero di guadagni, che poi sono quelli con cui riusciamo a campare. E non parlo solo degli albergatori e dei ristoratori. Parlo di tutta la gente del posto che di solito lavora per le strutture, i ristoranti, i negozi. I miei hanno già ricevuto messaggi da parte di conoscenti di là che chiedono aiuto, un lavoro, qualsiasi cosa. È mortificante. Ma noi siamo fermi, immobili. Che aiuto possiamo dare?”.

“Ma mettiamo che riuscirete ad aprire – fece l’amica –, vi siete fatti, per grandi linee, un’idea di quanti turisti verranno?”.

“Guarda, di certo noi potremo accogliere molta meno gente. Però non so se, in generale, ci saranno meno turisti. Perché, da un lato, non sarà possibile fare vacanze all’estero, quindi per forza di cose le vacanze si faranno in Italia. Dall’altro, immagino che la gente non ce la faccia più a stare chiusa in casa e non veda l’ora di farsi qualche settimana di vacanza. Immagino però che in tanti avranno meno soldi e poca voglia di ammalarsi, quindi resteranno a casa. Non lo so, davvero, non si può dire ancora nulla”.

“Forse c’è da considerare anche che, a quanto sento dire in questi giorni, andare in spiaggia non sarà facile, né rilassante. E poi c’è quella storia del plexiglass…”.

“Da quello che so, è una bufala, una non-notizia fatta uscire da qualche produttore. Insomma, una specie di pubblicità gratuita, di quelle che si fanno con i comunicati stampa che vengono pubblicati sui giornali. Non è una soluzione, è una cosa ridicola. Non solo è comprovato che all’aria aperta ci sono meno possibilità di contagio rispetto ai luoghi chiusi, ma se già ci viene imposto che gli ombrelloni, i lettini e le sdraio devono stare molto distanziati gli uni dagli altri, le barriere di plexiglass diventano assolutamente inutili. Si creerebbe soltanto una sauna che fa bollire i bambini e gli anziani. E poi, a parte la non praticità della cosa, ma sai quanto costa il plexiglass? È carissimo. Come si fa ad imporre alle strutture, che già sono in grande difficoltà, una spesa per un’attrezzatura così ingombrante e che, tra l’altro, l’estate prossima non verrà neanche usata?”.

La donna di mezza età uscì. Al suo posto entrò un signore sulla sessantina.

“Per quanto riguarda invece l’accesso alle spiagge – riprese Giulia –, quello è un altro bel problema. Come si fa a controllare la distanza tra le persone, sia sulla spiaggia che in acqua? E sui lidi, dove c’è sempre calca per prendere da bere o da mangiare? Che poi sulle spiagge di Acciaroli ci vengono sempre tantissime persone che non pernottano in paese. Arrivano la mattina, magari si portano il pranzo e le bibite da casa, e poi se ne vanno la sera. Una soluzione per far andare meno gente sulla spiaggia potrebbe essere quella di controllare gli accessi, come fanno la sera in cui chiudono il paese alle macchine che vengono da fuori. Si potrebbe pensare di far passare solo le persone che hanno una prova del loro pernottamento, come ad esempio una mail dell’albergo o del proprietario della casa presa in affitto. Non so, vedremo. Quel che so è che, al di là di come decideranno di gestire gli accessi al mare, noi dobbiamo comunque pagare la concessione per la spiaggia, che forse è la spesa più cara che abbiamo. E poi c’è la sanificazione da fare. Ora, è giusto farla, per carità, ma le spese per le pulizie saranno enormi, non solo per il personale ma anche per gli strumenti da comprare”.

Il signore sulla sessantina indugiava in chiacchiere con la donna dietro il bancone, ma Giulia e l’amica non avevano fretta. Erano ormai abituate ad una vita molto più lenta e molle, a dense ore di calma non solo nel tempo libero, che d’improvviso s’era moltiplicato, ma anche in quello del lavoro. Comprare le sigarette era sempre stata un’attività che richiedeva la spesa di una ventina di secondi di vita. Lì, invece, erano già passati diversi minuti. E stare su quel marciapiede, tranquille, in attesa, per una volta lontane dalla normale frenesia della vita imposta dal mercato e dalla produttività elevati a religione, a dogma inconfutabile, in quella mattina tiepida e soleggiata, era quasi un piacere.

“Noi, al momento, abbiamo già perso gli incassi di due matrimoni che avrebbero dovuto esserci tra fine maggio e giugno. Per noi i matrimoni sono poca cosa, non rappresentano gli incassi su cui basiamo la nostra attività: ne facciamo solo tre o quattro all’anno. Però, se commisurati al lavoro che viene chiesto alla struttura in queste occasioni, sono comunque un bel guadagno. Ma tu pensa ai ristoranti e alle ville che fanno solo battesimi e matrimoni. Pensa a tutti gli alberghi di Paestum, per dire. Loro campano di quello. Li hanno chiusi proprio nel periodo in cui ci sposa di più, quando avrebbero potuto organizzare più di un matrimonio al giorno, almeno nel caso delle strutture più grandi. Insomma, li hanno uccisi”.

Finalmente il signore uscì e loro poterono entrare. Comprarono le sigarette e tornarono in strada. Si riavviarono con passo lento.

“Ma voi siete stati ad Acciaroli in questi giorni?”, chiese l’amica.

“No. Un’altra assurdità. Noi ci potremmo andare perché lo spostamento sarebbe motivato da esigenze lavorative. Solo che, una volta lì, ci dovremmo mettere in quarantena per due settimane. Il nostro consulente sulla sicurezza del lavoro è stato chiaro. Ovviamente lo so che la quarantena è l’unico modo per evitare la nascita di nuovi focolai, quindi non voglio criticare la scelta in sé, ma anche se dovessimo scendere non potremmo lavorare”.

Continuarono a camminare qualche minuto in silenzio. Si ritrovarono in via Borgonona, poi in via Mario de’ Fiori e infine in via delle Carrozze. Passarono davanti ad una gelateria che sull’insegna aveva scritto: “Gelati fatti con arte dal 1986”.

“Quanto vorrei mangiare un gelato in questo momento”, sospirò l’amica di Giulia guardando l’ingresso sbarrato.

“Ecco – fece Giulia –, quante possibilità ci sono che un cliente di questa gelateria si senta male proprio qui? Oppure in un ristorante, in un negozio, in un supermercato? In albergo ce ne sono molte di più. Un cliente ci passa almeno una settimana in una nostra stanza. Potrebbe succedere che una mattina si sveglia e ha la febbre, e se ha il virus potrebbe denunciarci. Ma lo stesso potrebbe capitare in una fabbrica, per dire. Per come stanno le cose ora, il proprietario non può difendersi perché non può essere materialmente in grado di dimostrare che quella persona si è beccata il virus da qualche altra parte. La vedo proprio male, però spero di sbagliarmi così come mi sono sbagliata quando è cominciato tutto questo. Quando hanno chiuso tutto, si parlava di qualche settimana. Ero ottimista, convinta che per l’estate tutto sarebbe tornato alla normalità. Ma più passa il tempo, più la cosa diventa preoccupante. Per ora, l’unica cosa che abbiamo pensato di fare è di prendere le ordinazioni dei possibili clienti senza chiedere una caparra. Ma questo sai cosa vuol dire? Che ci basiamo sul nulla. La caparra ti dà un minimo di sicurezza. Se non la chiediamo vuol dire che un cliente che ha prenotato, mettiamo, dal primo al trenta agosto, può chiamarci il trentuno luglio per dirci che ha cambiato idea…”.

Le due ragazze s’ingoiarono la voglia di gelato, fecero un altro centinaio di metri insieme e poi si salutarono. L’amica ne approfittò per fare un giro più lungo e articolato per tornare a casa. Voleva continuare ancora un po’ a guardare, prima volta nella sua vita, la sua Roma senza la folla perenne a cui s’era dovuta abituare fin da piccola. Così passò per una vuota Piazza di Spagna, passeggiò per una sgombra via Condotti, si sedette per una decina di minuti davanti ad una solitaria e malinconica Fontana di Trevi. Voleva imprimere nella sua mente la memoria di una Roma per una volta congelata nelle sue bellezze, senza distrazioni intorno.

“Che bella giornata”, sospirò. Non le era mai capitato di vederla così, la sua Roma. Neanche di notte.

 

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