Salute 20 Giugno 2020 16:40

Fame d’aria – Capitolo 7

Ogni sabato, su Sanità Informazione, il racconto a puntate di una storia vera. Anzi, di più storie, di destini che si incrociano sulla spinta asfissiante di un virus che ci ha separati tutti. Luca è un medico che, dopo aver lavorato senza le protezioni necessarie, si ammala e, dopo un collasso, finisce in terapia intensiva. Verrà salvato dalla rapidità e dalla bravura dei medici dell’ospedale Cotugno di Napoli

Fame d’aria – Capitolo 7

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Luca si risvegliò di mattino presto dopo una notte tranquilla. Era domenica 12 aprile, giorno di Pasqua. Si sentiva il braccio destro indolenzito e aveva la barba lunga (cosa inusuale per lui che era abituato ad avere sempre il viso completamente glabro, liscio come il suo cranio). Guardò alla sua destra, sul comodino, cercando il cellulare. Lo prese e cominciò a scorrere tra i messaggi. “Buona Pasqua”, “Buona Pasqua a te e famiglia”, “Buona guarigione”, “Speriamo di rivederti presto…”.

Si fermò al messaggio di un collega che, prima di mandargli di auguri, gli aveva scritto: “Posso chiamarti adesso?”. Luca restò a guardare quelle lettere messe una a fianco all’altra per qualche lungo secondo, come se volesse ricostruirne il senso dopo che, scandendole una alla volta, lo avevano perso. Era un messaggio normale, non c’era scritto nulla di strano. Però, per qualche motivo, c’era qualcosa che non gli tornava. “Perché mi vuole chiamare?”, pensò. “Mah, sarà per farmi gli auguri di Pasqua a voce”. Luca chiamò il collega.

“Ciao Luca, tutto bene? Perché mi hai chiamato? Per gli auguri? Non ti sento da quella volta…”.

“Che significa perché ti ho chiamato? Mi hai scritto tu di chiamarti. E poi, di quale volta parli?”.

Il collega rimase in silenzio: “Luca – gli fece dopo qualche secondo –, ma tu non ricordi proprio niente? Quando te l’ho mandato il messaggio?”.

Luca non capiva. Staccò il telefono dall’orecchio e guardò l’orario di ricezione del messaggio in cui l’altro gli chiedeva se potesse chiamarlo: le 9 e 22. Poi guardò l’orologio: erano le 7 e 45. Gli si spezzò il fiato, si sentì mancare. Chiuse la chiamata senza salutare e scoppiò a piangere.



Luca era un cardiologo e fino a prima del ricovero aveva lavorato senza quelle protezioni che, solo qualche settimana dopo, sarebbero state riconosciute da tutti come l’unica, vera arma di difesa a disposizione dei medici contro il virus. Nulla di strano: dall’amministrazione della struttura non era arrivata alcuna comunicazione e loro, i medici che lavoravano lì, non pensavano di aver a che fare con dei pazienti che potevano essere veicoli di contagio.

L’ultimo fine settimana di febbraio era andato a sciare. Anche lui, come tutti, aveva sentito parlare del virus, ma all’epoca sembrava solo confinato alla Cina e, al massimo, ai Paesi limitrofi. Non se ne preoccupava, sembrava una cosa lontana. Ma la settimana successiva, la domenica, si risvegliò con una febbre molto alta. Il giorno precedente aveva accompagnato in auto sua figlia all’ospedale.

Lui e la sua compagna si ammalarono insieme. A lei la febbre passò in pochi giorni, a lui no, non andava via, nonostante i medicinali. Chiamarono più volte il numero verde predisposto per le segnalazioni di presunti casi di contagio da virus. Gli veniva risposto ogni volta di stare tranquilli perché, non avendo avuto contatti con persone di Milano o provenienti dalle zone in cui li contagio era più diffuso, la patologia andava considerata solo come una sindrome influenzale. In ogni caso, meglio non muoversi da casa.

Luca cominciò a preoccuparsi quando seppe che sua figlia fu trovata positiva al tampone. Il giorno successivo cominciò ad avere momenti di vuoto totale: perdeva conoscenza per qualche minuto, gli si creavano buchi di memoria che proprio non riusciva a colmare. Allarmata dal suo peggioramento, la compagna chiamò il 118 ma la risposta che ricevette fu, ancora una volta: “Non ci sono gli elementi per fare il tampone”. Ma lei, donna risoluta, non riattaccò, ed anzi insistette così tanto che il tampone corsero a farglielo il giorno stesso, nel tardo pomeriggio.

Luca era positivo al virus. Il 4 marzo fu trasferito all’ospedale Cotugno. Non si sentiva poi così male e non percepiva la gravità della situazione. Riuscì anche a radersi da solo, ma il giorno successivo ebbe un collasso. Si riprese venerdì 6 marzo. Ricevette un messaggio da un collega. “Mi hanno detto che hai avuto la polmonite…”. “Sì – rispose Luca –, ho anche avuto un collasso”. “Posso chiamarti adesso?”, scrisse il collega. Non ricevette risposta. Erano le 9 e 22.



Ora ricordava tutto. Il messaggio del collega non era di quella mattina ma di un mese prima. Quel che Luca non poteva ricordare era quel che successe dopo aver ricevuto quel messaggio. Aveva avuto una pesante crisi respiratoria che gli aveva fatto perdere i sensi. Per sua fortuna, il malore lo aveva avuto in ospedale e l’intervento fu tempestivo. Gli fu somministrata dell’adrenalina, fu intubato e portato subito in rianimazione. Gli fosse successo a casa, non sarebbe sopravvissuto.

La fortuna volle anche che proprio il giorno successivo al suo ricovero, al Cotugno diedero il via alla sperimentazione contro il virus di un farmaco che serviva a curare l’artrite. Questo farmaco poteva avere successo terapeutico soltanto se somministrato al paziente nel giro di massimo ventiquattr’ore dalla sua intubazione. Fosse entrato in terapia intensiva due giorni prima o avessero cominciato la sperimentazione un giorno dopo, non avrebbe avuto alcun effetto su di lui.

Non c’era più tempo da perdere. Sua figlia Elisabetta doveva firmare subito il consenso informato. Fosse passato troppo tempo (e forse era già passato) suo padre sarebbe morto.

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