Ogni sabato, su Sanità Informazione, il racconto a puntate di una storia vera. Anzi, di più storie, di destini che si incrociano sulla spinta asfissiante di un virus che ci ha separati tutti. Luca esce dal coma dopo due settimane, il giorno della festa del papà. Elisabetta cerca di mettersi in contatto con lui in tutti i modi
“È stazionario, è stazionario, è stazionario”. Quando ai medici e agli infermieri che entravano nella sua stanza Elisabetta chiedeva notizie del padre, intubato e in coma farmacologico nel reparto di terapia intensiva della stessa struttura, si sentiva rispondere sempre e soltanto due parole: “È stazionario”.
Più le ripetevano quella parola, più lei la odiava. Sentirsi ripetere “è stazionario” era, per lei, come sentirsi rispondere in continuazione “sta arrivando” alla domanda “quando arriva mio padre?”. Stava arrivando ma non arrivava mai. Era estenuante, sfibrante.
Avrebbe voluto avere un vocabolario sottomano solo per poter cancellare quella voce con una penna e, cancellandola, annullarne anche il significato. L’angoscia di quei giorni non era diminuita con il migliorare delle sue condizioni. Aveva soltanto cambiato oggetto di interesse, passando da una persona ad un’altra. Si sentiva sempre in bilico, in un limbo, in una fase di sospensione del tempo, come se la terra avesse smesso di girare. Era come rivivere sempre lo stesso, identico giorno. Per lei era sempre il 6 marzo.
Quando era stata ricoverata, lei e suo padre si sentivano costantemente. Anche lui, ad un certo momento, si era sentito poco bene. Le parlò dal suo letto dei sintomi, della possibilità che pure lui potesse essere stato beccato dallo stesso virus, delle difficoltà che incontrava, insieme alla sua compagna, nel farsi fare il tampone. Lui però stava molto meglio rispetto a lei, ed era lei, con la sua voce roca e affannata, a provare a tranquillizzarlo, proprio perché se avesse avuto il virus non sarebbe stato in quelle condizioni tutt’altro che critiche. Ora però suo padre era lì, vicino a lei ma non abbastanza da poterlo vedere e rendersi conto da sola delle sue condizioni. Di abbracciarlo, non se ne parlava nemmeno. Sarebbe stato già tanto se fosse riuscita a fargli avere sue notizie.
Da quando era stato ricoverato avevano, ovviamente, smesso di sentirsi, e quando chiedeva alla madre e alla sorella che fine avesse fatto il padre, loro, per non spaventarla, giravano intorno alla domanda e le rispondevano che non era a casa e che aveva dimenticato il caricatore del telefono. Per questo era irraggiungibile. Cosa possibile, pensava Elisabetta, visto che suo padre era un tipo molto distratto. Poi, quando le cose precipitarono, non potettero più nasconderle la verità.
Il coma farmacologico durò due settimane. Luca fu estubato giovedì 19 marzo, giorno della festa del papà. Una bella coincidenza che Elisabetta prese come un segno del destino. La felicità e il sollievo che seguirono quella notizia furono indescrivibili, ma durarono poco. Elisabetta si fece prendere da un’altra angoscia.
Lei sapeva, ne era più che sicura, che una volta sveglio, il padre si sarebbe dannato per sapere come stesse lei. Il problema, però, è che i suoi effetti non si trovavano. In quel caos, Luca aveva cambiato tre reparti (degenza, subintensiva e intensiva) e nessuno sapeva dove stessero i suoi occhiali, le sue chiavi, il portafogli e il cellulare. Non potevano sentirsi, non potevano tranquillizzarsi e farsi forza l’un l’altra.
Luca era stato intubato lo stesso giorno in cui Elisabetta aveva effettuato la seconda Tac, la quale era risultata molto più brutta della precedente. L’ultimo suo pensiero, prima di collassare, era dunque rivolto alla figlia che, come confermato dalle analisi, stava peggiorando. Tant’è che l’ultima volta in cui avevano parlato, poco prima che si sentisse male e venisse intubato, lui si disse preoccupatissimo per le notizie che gli arrivavano di lei.
E quando luca si risvegliò, ancora parzialmente sedato e con la mente molto rallentata dagli anestetici, il suo primo pensiero fu proprio Elisabetta. Lei provò in tutti i modi a fargli arrivare un messaggio tramite i medici e gli infermieri. “Ditegli che sto bene”, li supplicava. Ma si trovavano in due palazzine diverse e il personale non era lo stesso. Provò dunque a chiamare il centralino della terapia intensiva. Ogni volta pregava, supplicava chi rispondeva di far arrivare una voce a suo padre, di dirgli che lei stava bene, stava migliorando e presto l’avrebbero dimessa. “Diteglielo, vi prego…”. Ma i pazienti erano tanti, la terapia intensiva era già piena di persone che avevano contratto il virus. Non era un compito facile come potesse sembrare.
Elisabetta non seppe mai se il suo messaggio arrivò al padre.