“Cervello senza limiti” è la prima inchiesta italiana sul fenomeno controverso, ma sempre più diffuso, del brain enhancement. L’autrice, Johann Rossi Mason: «Ti permettono di lavorare per ore senza sentire la fatica ma non sono una scorciatoia». E lancia il sondaggio per indagare il fenomeno nel nostro paese
È esploso negli Stati Uniti ma sta prendendo piede anche in Europa. È il brain enhancement – o potenziamento cerebrale – la ricerca di prestazioni intellettuali di alto livello utilizzando nootropici, ossia farmaci, ormoni e integratori attivi sul sistema nervoso che permettono di migliorare la capacità di apprendimento, aumentare la memoria e ridurre la fatica.
PRIMO SONDAGGIO ITALIANO SUL POTENZIAMENTO DEL CERVELLO
Sono sostanze ricercate da studenti ambiziosi, chirurghi, piloti, militari, agenti di borsa ma anche giocatori professionisti di poker e manager. Il motivo? Migliorare le performance per sostenere i ritmi richiesti ed imposti dalla società, dalla famiglia e dagli impegni scolastici in un mondo sempre più veloce e competitivo. Il fenomeno è spesso descritto, erroneamente, con i termini ‘study drugs’ e ‘smart drugs’ ma non si tratta di sostanze stupefacenti, bensì farmaci legali ed approvati per alcune patologie – Alzheimer, Parkinson, narcolessia – che hanno azioni positive in termini di capacità di concentrazione, attenzione e memoria sui soggetti sani. Di solito, sono assunti per periodi limitati: durante gli esami, per scrivere una tesi, affrontare il jet lag o terminare un lavoro in tempi stretti.
Negli ultimi anni si è intensificato il dibattito, in neuroetica e bioetica, su questo argomento. Il mondo scientifico è diviso tra chi è contrario, chi avverte sui rischi e chi invece sostiene che la società dovrebbe accettarne i benefici, purché sostenuti da ricerche in grado di dimostrarne la sicurezza.
«Ma sbaglia chi crede che siano una scorciatoia, sono un plus ad un grande impegno di studio e lavoro», dichiara l’autrice e giornalista medico-scientifica Johann Rossi Mason nell’intervista a margine della presentazione del volume, specificando che il libro non è stato scritto sotto l’effetto delle sostanze di cui si parla, anche se per documentarne gli effetti si è prestata a testarle.
Il cervello come può migliorare?
«Ci sono moltissimi modi. Il cervello in realtà è un muscolo e quindi ha bisogno di molto allenamento, e grandi stimoli, è “goloso” sia di sostanze nutritive che di informazioni. Nella sua struttura si creano connessioni, più sono attive e più il cervello funzionerà bene. A volte, però, la gente sente di “arrancare” dietro agli impegni che ha. Molte persone quando hanno saputo che ho scritto questo libro mi hanno chiesto: “Vorrei un cervello nuovo, come posso fare?”. Mangiare bene, essere pieni di interessi, dormire, ma non solo. Da circa 15 anni è nato un trend molto interessante ma ancora poco conosciuto. Si tratta dell’utilizzo di farmaci o integratori legali normalmente utilizzati in persone che hanno patologie – come ad esempio l’Alzheimer, il Parkinson, la narcolessia – ma che nei sani hanno mostrato di poter aumentare alcune facoltà cognitive fondamentali: l’attenzione, la memoria, la visualizzazione, la logica, la concentrazione, la motivazione e anche un po’ l’intelligenza».
È un fenomeno che nasce negli Stati Uniti e si sta diffondendo in Europa; quanto ne sappiamo sull’Italia?
«Sembra addirittura che l’Europa abbia superato gli Stati Uniti nei tassi di utilizzo. Va specificato che queste sono sostanze per chi vuole “produrre di più” e, per questo, secondo me, ci vai in biblioteca e non in discoteca. Non sono una scorciatoia, sono un plus rispetto a un grande impegno di studio e di lavoro. Ti permettono di lavorare e studiare per venti ore consecutive senza sentire la fatica. In Europa alcuni studi hanno stimato un’incidenza pari al 30% in alcune aree, come quella accademica. Studenti, professori universitari, manager, piloti, chirurghi, persone che lavorano in borsa e devono lavorare la notte. In Italia non ci sono ancora studi; per colmare questo gap sul sito abbiamo lanciato un sondaggio online con cui vorremo fotografare la situazione sull’utilizzo di questi farmaci nel nostro paese, indagare il fenomeno del potenziamento cerebrale e quantificarlo».
Un passaggio del libro dice: “Tra vent’anni assumeremo le nostre ‘pillole cerebrali’ assieme al primo caffè della mattina”. Cosa ne pensa?
«Assolutamente sì. Noi abbiamo guadagnato circa vent’anni anni in più e desideriamo vivere al meglio delle nostre facoltà. La cosa che ci fa più paura sono le demenze, le malattie neurodegenerative. A cosa serve vivere di più se non si può fare al meglio delle proprie facoltà? La ricerca è tutta su questo e probabilmente i maggiori utilizzatori di queste sostanze saranno proprio i sessantenni e settantenni. Gli ultimi trials clinici su Alzheimer e Parkinson sono tutti falliti: per questo, bisognerà agire sulla prevenzione e esistono quattro fattori protettivi importanti: il quoziente intellettivo, il livello di scolarizzazione, il livello di occupazione e il livello di interessi extra lavorativi. L’insieme di questi fattori, quando è molto alto, permette al cervello di godere di una “riserva cognitiva”, sia di numero di neuroni che di capacità funzionali. Nell’età anziana, permette a chi ha segni clinici di Alzheimer e demenza di non mostrare i sintomi. Ma quando questa riserva si esaurisce, i segni e i sintomi arrivano più forti di prima. È la prova che dobbiamo investire sulle nostre facoltà intellettive già da giovani».
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Il mondo medico come sta approcciando questo nuovo panorama di tecniche, farmaci e sperimentazioni?
«C’è un filone di ricerca scientifica che se ne occupa: la neuroetica. Stiamo parlando di farmaci che vengono usati fuori indicazione medica; gli esperti sottolineano che non esistono ancora studi per capire l’impatto a lungo termine sul cervello. Io direi che possiamo dare alcune indicazioni molto chiare: se si vuole provare, è fondamentale utilizzare sostanze legali, per brevi periodi, limitati a quello che serve. Non ai minori, assolutamente, perché non sappiamo che effetto possono avere su un cervello che si sta formando e attenzione all’approvigionamento. Quello che viene acquistato in rete potrebbe non contenere la molecola di principio attivo che cerchiamo o, peggio, contenere un farmaco contraffatto che contiene sostanze pericolose. Siamo ancora nell’ambito di un atteggiamento liberale: se vogliamo utilizzarli in maniera personale possiamo farlo ma ci vorrà ancora del tempo per capire che impatto avrà nei prossimi anni. Possiamo anche immaginare che queste sostanze saranno vietate nelle università che ci saranno controlli prima degli esami, affinché i soggetti trovati positivi vengano esclusi e sanzionati. Ma questo è il futuro».