La scoperta in uno studio europeo coordinato dagli specialisti dell’Epatologia e del Transplant Center del Niguarda di Milano diretto da Luca Belli: «Farmaci come il tacrolimus prevengono forme più gravi e riducono la mortalità e con il cortisone permettono di curare malati Covid anche non trapiantati»
1500 pazienti in lista d’attesa per un trapianto di fegato, 113 soggetti sottoposti ad intervento nei primi 10 mesi del 2020. Questi i numeri del Transplant Center dell’Ospedale Niguarda di Milano, numeri che hanno reso necessario nei momenti di maggiore criticità della pandemia da Covid, lo scorso mese di marzo, lo sforzo di non interrompere l’attività, ma anche di studiare il migliore approccio possibile alla terapia antirigetto nei trapiantati di fegato con infezione da Sars–Cov-2.
Ne è nato uno studio coordinato dagli specialisti dell’Epatologia e del Transplant Center dell’Ospedale Niguarda di Milano con il coinvolgimento di 250 pazienti Covid di oltre 40 centri trapianto europei che è stato pubblicato nei giorni scorsi nella prestigiosa rivista scientifica Gastroenterology con interessati risultati.
A confermarlo è Luca Belli, direttore dell’Epatologia e Gastroenterologia e principale “investigator” nella ricerca. «Lo studio ha consentito di arrivare a due importanti risultati – spiega –. Da un lato è emerso che i farmaci immunosoppressori, in particolare il Tacrolimus, non hanno peggiorato il quadro clinico di soggetti trapiantati malati di Covid e al tempo stesso si sono rivelati utili per prevenire forme più gravi e per ridurre significativamente la mortalità. Dall’altra – prosegue – è emerso che questo farmaco, utile ai trapiantati, potrebbe curare, insieme al cortisone, malati Covid gravi anche se non trapiantati. Ed è quanto stanno valutando ora in Spagna in uno studio prospettico».
Un risultato che per il direttore dell’Epatologia e Gastroenterologia del Niguarda è stato possibile grazie alla ricerca indipendente e alla collaborazione dei clinici e della comunità scientifica «senza alcun finanziamento delle aziende farmaceutiche» precisa Belli nel raccontare i primi momenti di emergenza sanitaria che hanno gioco forza coinvolto anche il reparto trapianti.
«A marzo durante la prima ondata del Covid, i nostri professionisti del centro trapianti si sono allarmati per i pazienti in lista, molti dei quali giovani, e con comorbidità, e soprattutto per quelli con un’anzianità di trapianto di 10 o 20 anni. Per far fronte a questa situazione – continua – è iniziata una collaborazione internazionale con colleghi di altri Stati, lontani geograficamente, ma con gli stessi problemi, e si è deciso di condividere un registro per monitorare i trapiantati di fegato di molti centri europei».
La condivisione di questi dati attraverso la rete europea ESOT/ELITA (European Society for Organ Transplantation e European Liver Transplant Association) e il registro internazionale ELTR (European Liver Transplant Registry) ha permesso di raccogliere le informazioni di 250 pazienti di 149 centri di trapianto europei arrivando ad importanti risultati.
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