Salute 18 Maggio 2020 13:19

Fase 2, dopo il lockdown abbiamo tutti “fame di pelle”. Ecco cos’è la skin hunger

Medde (psicologa): «La mancanza di contatto fisico può incidere negativamente sull’umore, influenzare i ritmi del sonno e il nostro rapporto con il cibo, fino alla depressione. Al contrario, la vicinanza pelle a pelle ci rende vivi e rinforza il sistema immunitario»

di Isabella Faggiano
Fase 2, dopo il lockdown abbiamo tutti “fame di pelle”. Ecco cos’è la skin hunger

Baci, abbracci, carezze, strette di mano, pacche sulle spalle: da quando è esplosa la pandemia ogni gesto d’affetto è vietato. Guardiamo l’altro da una distanza di almeno un metro e siamo costretti a decifrare il suo stato d’animo dagli occhi, non potendo vedere nemmeno se sorride o se è imbronciato, perché coperto dalla mascherina. Eppure, per l’essere umano il contatto fisico è un’esigenza primaria, biologica, necessaria quasi come l’aria che respira: «Questo bisogno di vicinanza nasce insieme all’essere umano – spiega Paola Medde, psicologa e psicoterapeuta, consigliere dell’Ordine degli Psicologi del Lazio -. Lo percepisce il neonato già dalle sue prime ore di vita».

È allora che cosa accade quando ne veniamo improvvisamente privati? A questa astinenza da contatto con l’altro è stato dato un nome fortemente evocativo: “skin hunger”, letteralmente  “fame di pelle”. «Una mancanza – sottolinea Medde – che può incidere negativamente sull’umore, influenzando i ritmi del sonno e il nostro rapporto con il cibo, fino alla depressione».

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Già negli anni ’60 lo psicologo Harry Harlow studiò questo bisogno primordiale osservando alcuni macaco: «Per qualche giorno – racconta la psicologa – sistemò un cucciolo all’interno di una gabbia dove era presente una struttura che dispensava cibo. In un’altra gabbia, invece, ricreò una sorta di sostituto della mamma, che non distribuiva cibo, ma che era completamente ricoperto di pelo. Harlow dimostrò, diversamente da quello che si pensava – ossia che la vicinanza tra esseri viventi fosse sostenuta solo da una necessità di soddisfazione dei bisogni primari, come quello di nutrirsi – che il cucciolo stazionava accanto alla struttura che dispensava cibo solo il tempo di mangiare, il resto della giornata lo trascorreva nella gabbia con la finta scimmietta ricoperta di pelo. Questo perché il bisogno di vicinanza, di calore, di contatto fisico è la necessità che l’essere vivente tende a soddisfare sin dalle primissime ore di vita».

Per renderci conto che gli esseri umani hanno lo stesso tipo di bisogno è sufficiente osservare un bambino appena venuto alla luce: «I neonati hanno sin dalla nascita il riflesso della prensione: se gli tocchiamo l’interno della mano vedremo come tenderà immediatamente ad aggrapparsi. Questo istinto primordiale ha lo scopo di farlo sentire protetto, al sicuro, e soddisfa, oltre al bisogno di sopravvivenza, anche quello affettivo».

Il contatto pelle a pelle stimola anche il nostro cervello: il tocco è in grado di evocare una risposta piacevole, di rilassamento, che può far diminuire la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. E non solo: «Questa vicinanza – aggiunge Medde – protegge e rinforza il nostro sistema immunitario e ci tiene alla larga da possibili disturbi di natura depressiva. La psicoanalisi fece i suoi primi studi sui bambini sottoposti ad isolamento perché orfani: si notò come i bambini non stimolati, non toccati, non accuditi da un punto di vista fisico, tendevano ad avere una deprivazione generale sia del tono dell’umore che del sistema immunitario». In particolare fu lo psicanalista Renè Spitz ad osservare dei bambini abbandonati fin dalla nascita in un orfanotrofio, dimostrando come ad un anno di vita le loro prestazioni intellettuali erano molto ritardate rispetto alla media.

Altra prova a favore del contatto fisico è la pet-therapy. «In molti reparti oncologi – spiega Medde -, pur essendo luoghi igienicamente sigillati, è consentito l’accesso agli animali, poiché la loro vicinanza permette non soltanto di rendere l’umore vivo, ma di stimolare la reazione del sistema immunitario. Tutto grazie al contatto, in questo caso con il pelo e non con la pelle, che ricorda molto l’attaccamento primordiale. Legame rievocato anche dai peluche che doniamo ai nostri bambini, facendogli sentire la vicinanza anche quando l’altro non è disponibile».

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Attaccamento che in età adulta, più o meno consapevolmente, riviviamo attraverso alcune pratiche di relax: «Tante persone si sottopongo ai massaggi rilassanti proprio perché questa manipolazione – commenta la psicoterapeuta – dona una sensazione di benessere, non solo facendoci provare come stiamo con l’altro, ma restituendoci anche delle sensazioni che ci fanno capire come stiamo in compagnia di noi stessi. Pure quando cospargiamo il nostro corpo di crema profumata, e quindi ci auto-manipoliamo, produciamo un effetto benefico. Il contatto giornaliero è, dunque, fondamentale per chiunque».

E cosa rischia chi per oltre due mesi, durante il lockdown, vivendo solo in casa, è stato privato di tutto questo? «Le persone non sempre si rendono conto di vivere in una condizione di disagio o sofferenza e, seppure ne hanno la percezione – sottolinea Medde -, devono avere la voglia di uscirne, di liberarsi da una situazione spiacevole che potrebbe sfociare anche in depressione. Spesso, infatti, non sono i diretti interessati a chiedere aiuto, ma i loro familiari a rendersi conto che qualcosa non va». I primi segnali che è possibile osservare sono quelli comunemente collegati alla depressione: «Variazioni significative nel ritmo del sonno – spiega la psicologa -, si dorme troppo o troppo poco; ancora, cambia il rapporto con il cibo, ci si abbuffa o si perde completamente l’appetito, si prova disinteresse per le cose, non si trova la motivazione per affrontare la giornata o, addirittura, la voglia di alzarsi dal letto. Segni che possono essersi manifestati durante il lockdown o che possono essere peggiorati a causa della privazione non solo di contatto fisico, ma anche di relazioni sociali e del sole sulla pelle. Laddove ci accorgiamo che questi segnali iniziano ad essere sempre più presenti nella nostra quotidianità, non bisogna aver paura di chiedere aiuto. Se ne può parlare prima con degli amici o ci si può rivolgere al proprio medico di base o direttamente a degli specialisti che – conclude l’esperta – potranno aiutarci ad uscire da questo stato che, nel tempo, non farebbe altro che peggiorare».

 

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