L’intervento, realizzato presso la PMA dell’Ospedale di Padova, permetterà a una giovane malata oncologica di 14 anni di preservare la fertilità. La professoressa Alessandra Andrisani ne parla a Sanità Informazione
Diventare madre dopo aver affrontato cure oncologiche non è facile, a volte addirittura impossibile, in particolare se la paziente è molto giovane e le terapie molto aggressive. Oggi, grazie ad un intervento con una nuova tecnica utilizzata presso il centro PMA dell’Azienda Ospedale Università di Padova, la speranza di molte giovani donne può diventare realtà. Ad aprire una nuova strada per preservare la fertilità, l’intervento realizzato dalla professoressa Alessandra Andrisani su una giovane malata oncologica di 14 anni.
La novità di questa modalità di preservazione della fertilità consiste nell’espianto e nella conservazione del tessuto ovarico. «La malattia oncologica spesso danneggia irrimediabilmente la fertilità della donna che, nonostante la guarigione, sviluppa importanti forme di depressione – spiega Andrisani a Sanità Informazione -. Per questo da anni si studiano forme di conservazione degli ovociti e la crioconservazione rappresenta ancora la strada maestra». Gli ovociti congelati possono essere utilizzati quindi, a guarigione ultimata, per permettere alla donna di diventare madre. Non per tutti però questa tecnica è possibile.
«Ci sono delle categorie di donne che non possono sfruttare questa tecnica – racconta la direttrice della PMA di Padova -. Alcune non hanno tempo di effettuare la preparazione necessaria alla stimolazione ormonale, che dura due settimane, ma devono affrontare subito le cure chemioterapiche. Altre sono troppo giovani e dunque non hanno ancora sviluppato un asse produttivo tale da garantire ovociti sufficienti per la conservazione». In entrambi i casi, la nuova tecnica, utilizzata per la prima volta a Padova, significa speranza.
La novità sta nella possibilità di prelevare e conservare il tessuto ovarico che, per altro, è una modalità prevista anche dalle ultime linee guida di AIOM se pur ancora in via sperimentale. «Si tratta di una tecnica che prevede il prelevamento del tessuto ovarico con una laparoscopia in day hospital – puntualizza Alessandra Andrisani –. Se l’ovaio è sufficientemente grande il prelievo viene effettuato solo su uno, altrimenti si ripete l’operazione anche sul secondo ovaio». Gli embriologi poi separano la parte interna dal materiale estratto e creano delle fettine molto sottili di tessuto embrionale, che viene conservato in azoto liquido a -180°.
Questa tecnica – che rappresenta il fiore all’occhiello di una struttura già all’avanguardia dotata di 4 ecografi che consentono lo studio in 3D dell’utero, permette di far ripartire la funzionalità dell’ovaio. «In pratica si crea una tasca nell’ovaio, si inseriscono le “fettine” di tessuto ovarico che generano una nuova vascolarizzazione, senza il rischio di rigetto – sottolinea Andrisani – quindi l’ovaio riprende la sua funzionalità e la donna ricomincia a produrre ovociti». In questo modo la paziente non andrà in menopausa precoce e potrebbe non aver bisogno neppure di una fecondazione in vitro. «La durata di questo tessuto va da sei mesi a dodici anni – aggiunge -, in media dura cinque anni. È quindi una modalità utile per far nascere bambini sani senza alcun rischio per le mamme».
Tutto si complica se il tumore interessa l’ovaio, in quel caso diventa impossibile conservare e utilizzare il tessuto malato, ma per aggirare il problema, da anni è allo studio l’ovaio artificiale. «La tecnica studiata negli Stati Uniti e a Bruxelles, permette di creare una matrice artificiale, somigliante in tutto e per tutto ad un ovaio nel quale inserire i follicoli da far crescere – racconta la direttrice della PMA di Padova -. In alternativa esiste sempre la possibilità della vitro maturation (IVM), una opzione che prevede il prelievo del tessuto ovarico o degli ovociti immaturi della paziente da far maturare in vitro, pulire, fecondare e successivamente introdurre l’embrione».
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