Le persone che soffrono di fibrosi cistica sono più “protette” dall’infezione da Covid-19, rispetto al resto della popolazione: è questa l’intuizione di Valentino Bezzerri e Marco Cipolli, del Centro Fibrosi Cistica dell’Azienda Ospedaliera Integrata di Verona, che hanno coordinato un team multidisciplinare che ne ha svelato il meccanismo. Lo studio potrebbe anche aprire nuove prospettive per lo sviluppo di protocolli terapeutici contro il Covid-19
Chi soffre di fibrosi cistica, una delle patologie genetiche più diffuse, è più resistente al Covid-19. A scoprirlo un team multidisciplinare di ricercatori del Centro Fibrosi Cistica dell’Università di Verona e dell’Università di Ferrara. A produrre l’effetto “scudo” è lo stesso difetto che causa la patologia genetica. «La limitazione dell’ingresso del virus Sars-CoV-2 nelle cellule delle persone affette da fibrosi cistica è dovuta ai livelli bassi o alterati della proteina CFTR (regolatore della conduttanza transmembrana della fibrosi cistica), causati dalle mutazioni dell’omonimo gene (CFTR), alla base della patologia genetica», dice a Sanità Informazione Roberto Gambari, del Dipartimento di Scienze della Vita e Biotecnologie dell’Università di Ferrara. Ma spiegare il motivo per cui le persone che soffrono di fibrosi cistica siano più “protette” dall’infezione da Covid-19 rispetto alla popolazione sana, non è l’unico valore aggiunto dello studio, pubblicato di recente su Nature Communications.
Le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori offrono importanti spunti anche per lo sviluppo di nuove terapie contro il Covd-19. «Lo studio – racconta il professore Gambari – è stato stimolato dalla intuizione di Marco Cipolli e Valentino Bezzerri, entrambi coordinatori dello ricerca. Nel corso della pandemia da Covid-19 i due studiosi hanno notato che l’incidenza di infezioni da Sars-CoV-2 tra i pazienti affetti da fibrosi cistiche era decisamente più bassa, che in altri soggetti sani. Potrebbe sembrare un paradosso, se si considera che, generalmente, i pazienti con fibrosi cistica, così come quelli affetti da altre gravi patologie, sono considerati “fragili” e quindi a maggior rischio di sviluppare complicanze. Si può dunque ipotizzare che i pazienti con fibrosi cistica siano “protetti” all’infezione di SARS-CoV-2», sottolinea il professore.
Dalla teoria i ricercatori sono passati alla valutazione in laboratorio. «Cellule con mutazione del gene CFTR sono state esposte, in vitro, al virus SarS-CoV-2 – spiega Gambari -. In laboratorio è stato possibile osservare come fosse proprio la proteina CFTR mutata a causare un’alterazione della localizzazione in membrana di Ace2 (una proteina che si trova sulla superficie di molti tipi di cellule del nostro corpo, ndr) che, normalmente, nei soggetti non affetti da fibrosi cistica, veicola il SarS-CoV-2 all’interno dell’organismo. Questa alterazione della localizzazione di Ace2 rende inefficiente il passaggio del virus attraverso la membrana cellulare», dice Gambari.
I ricercatori hanno verificato sperimentalmente che la proteina chiave della fibrosi cistica l, CFTR, è co-localizzata con il recettore-Ace2. Di conseguenza, se il gene CFTR è espresso a bassi livelli o genera una proteina CFTR difettiva nella sua funzione, la localizzazione del recettore Ace2 viene completamente alterata. «Un’alterazione che comporta un’inibizione dell’entrata del Sars-CoV-2 nelle cellule, associata ad una riduzione della sua replicazione», aggiunge il professore.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto, l’associazione tra bassa espressione o alterazione di CFTR e inibizione della replicazione del Sars-CoV-2, ad aprire una nuova possibilità di sviluppo di protocolli terapeutici per i pazienti che contraggono la Covid-19, soprattutto pensando ai pazienti a maggior rischio di complicanze. «Sviluppando una molecola capace di inibire temporaneamente l’attività del gene CFTR e somministrandolo in pazienti che hanno contratto il Covid-19 da poco – dice Gambari – potremmo impedire al virus di replicarsi. In questo modo l’infezione potrebbe scomparire nel giro di pochi giorni, non creando quelle complicanze gravi che – conclude il professore -, nel corso della pandemia da Covid-19 hanno causato la morte di milioni di persone nel mondo».
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