«La diversità culturale e religiosa crea barriere e la rete dei servizi dell’azienda sanitaria deve funzionare in maniera più integrata, a partire dal medico di medicina generale fino agli operatori». Così Angelo Tanese, Direttore generale della ASL Roma 1 che, insieme al Tavolo interreligioso di Roma ed al Policlinico Gemelli, ha promosso il Manifesto Interreligioso per il Fine Vita
Saper prestare assistenza clinica e umana nel momento più difficile per una persona, la sua morte. A prescindere dalla cultura e dalla fede religiosa, ne hanno diritto tutti. È questo il senso intrinseco del Manifesto Interreligioso dei diritti nei percorsi di Fine Vita, firmato in questi giorni da 18 rappresentanti di confessioni religiose, responsabili di strutture sanitarie, Asl e associazioni di volontariato. Sul contenuto e l’operatività del Manifesto, Sanità Informazione ha intervistato Angelo Tanese, Direttore generale della ASL Roma 1 che ha promosso l’iniziativa insieme al Tavolo interreligioso di Roma ed al Policlinico Gemelli.
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Il Manifesto Interreligioso vuole incentivare un confronto e una condivisione fra varie professioni religiose del Fine Vita, sia in termini di collaborazione sanitaria che umana. Come sarà possibile realizzarlo?
«Il Manifesto promuove un’attenzione particolare alla persona nel momento più difficile della vita, in modo da garantire anche una cura non solo dell’aspetto sanitario, ma anche della sua dimensione direi più spirituale, in alcuni casi anche religiosa. Ovviamente confrontarsi con questo aspetto presuppone una sensibilità necessaria da parte degli operatori sanitari che devono tener conto del credo e anche delle abitudini e delle pratiche degli assistiti e dei loro familiari. Una cura particolare in un momento così delicato significa anche una qualità migliore del nostro Sistema sanitario nazionale. Quindi la firma del Manifesto è l’inizio di un percorso che vuole incentivare la formazione e l’informazione per i professionisti sanitari così da poter affrontare momenti così importanti».
Lei ha messo l’accento sull’importanza della formazione degli operatori sanitari: quanto conta questo aspetto nell’ambito di un percorso di Fine Vita?
«Gli operatori sanitari, soprattutto gli infermieri, hanno la relazione di cura alla base della loro professionalità. Tuttavia ritengo sia importante fare anche un’operazione ulteriore di sensibilizzazione e consapevolezza, perché a volte la diversità culturale e religiosa crea una barriera, e da questo punto di vista la rete dei servizi dell’azienda deve funzionare in maniera più integrata a partire dal medico di medicina generale fino ad arrivare agli operatori sanitari che si muovono in ospedale, a domicilio e nei Pronto soccorso. Purtroppo si muore e la morte è una parte imprescindibile della vita, ma nei luoghi dove questo avviene, che sia in ospedale, a domicilio o in hospice, la cura del percorso di Fine Vita diventa importantissima e deve essere affrontata consapevolmente e organizzazione».
A proposito di organizzazione e di rete, come sarà possibile diffondere questo Manifesto perché diventi operativo nelle strutture sanitarie?
«Per noi questo è un punto d’arrivo di un lavoro di definizione dei diritti che però diventa punto di partenza anche per un’attività più operativa che stiamo avviando nel definire procedure, pratiche e linee attuative del protocollo. Poi c’è un aspetto non trascurabile di dibattito e confronto, perché su questo tema del Fine Vita il nostro SSN deve accendere una luce particolare, proprio perché bisogna dire che anche quando la parte clinica arretra perché non è più in grado di trovare una soluzione, c’è un aspetto fondamentale che entra in campo, che è la dimensione umana dell’assistenza. La cura della persona non deve mai finire».
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