Nel libro “Cattivi Scienziati” il ricercatore di Biologia di Sistemi Complessi spiega il fenomeno delle frodi scientifiche amplificato dal Covid: «Il tempo da dedicare alla revisione dei singoli articoli è polverizzato dall’ammontare di manoscritti che arrivano»
«La divisione fra “ottimisti” e “catastrofisti” è da rifiutare in toto: esiste solo una varietà di posizioni, alcune delle quali provviste di dati, altre meno». Enrico Bucci, professore di Biologia dei Sistemi complessi presso la Sbarro Health Research Organization di Philadelphia della Temple University (oltre che editorialista de Il Foglio) non vuole partecipare alla disputa che divide (in modo improprio) virologi e scienziati italiani sull’evolversi dell’epidemia di Covid-19.
Dal suo osservatorio americano, Bucci non smette di combattere la sua battaglia, iniziata molti anni fa, contro le fake news e, soprattutto, le frodi nella ricerca scientifica. Così ecco tornare alla ribalta il suo libro del 2015 Cattivi scienziati con una seconda edizione dal sottotitolo eloquente: “La pandemia della malascienza”.
Secondo Bucci, è enorme il numero di articoli scientifici con “problemi”: alcune stime li calcolano tra lo 0,5 e il 20% di tutti gli articoli scientifici, ma solo una piccolissima parte di questi viene ritirata. Se il fenomeno era in preoccupante crescita cinque anni fa, lo è ancora di più con l’esplodere del Covid-19: esempio emblematico l’articolo sull’idrossiclorochina pubblicato sul Lancet e poi ritirato perché i dati su cui si basava non erano attendibili.
Si potrebbe obiettare che si tratta di errori commessi in buona fede, ma non sempre è così. E Bucci lo ricorda molto bene nel suo libro, dove nel suo excursus storico ricorda i casi di Giuseppe Gioeni D’Angiò, che sul finire del ‘700 inventò di sana pianta una specie di mollusco marino (“scoperta” che gli valse persino una menzione nell’Encyclopédie francese), e del dottor Yoshitaka Fujii di Tokyo, detentore del primato non certo invidiabile del maggior numero di articoli scientifici ritirati perché rivelatisi fasulli.
Un grave problema per la scienza, quello delle frodi scientifiche; a cui però secondo Bucci un rimedio c’è: una comunità sempre più numerosa di ricercatori che dedichino il proprio tempo all’identificazione di metodi utili alla scoperta delle manipolazioni, professionisti indipendenti che applichino questi metodi all’analisi di ogni manoscritto candidato alla pubblicazione in grado di esporre con efficacia il pericolo contro cui ci si misura.
Professore, partiamo dall’attualità. I contagi da Covid-19 stanno riprendendo forza in molti Paesi: in Spagna e Germania il numero è cresciuto in modo esponenziale nelle ultime ore. La seconda ondata può arrivare prima del previsto?
«Io previsioni non ne ho mai fatte e non credo possano farsi. Il processo di ripresa epidemica, come del suo innesco iniziale, è casuale, e le sue dinamiche sono caotiche; possiamo solo sapere che la ripresa, oggi, è possibile in qualsiasi momento. Quanto sia probabile, dipende dai nostri comportamenti e dal monitoraggio».
In questi ultimi tempi gli scienziati, almeno sui media, si stanno dividendo tra “ottimisti” e “catastrofisti”. Ma il virus è diventato “più buono” oppure è solo grazie al distanziamento e alle mascherine che ce la stiamo cavando?
«Il virus e la patologia indotta, al momento, non sono cambiati: non vi è nessuna evidenza per affermarlo, e vi sono molte evidenze contrarie. Oltre a distanziamento e mascherine, la ridotta mobilità del lockdown ha probabilmente contribuito ad abbassare di molto la circolazione virale, e forse – ma qui siamo ancora nel campo delle pure ipotesi, con dati troppo deboli – anche qualche forma di stagionalità (che influenza per esempio la frazione di tempo trascorso al chiuso). La divisione fra “ottimisti” e “catastrofisti” è da rifiutare in toto: esiste solo una varietà di posizioni, alcune delle quali provviste di dati, altre meno».
Veniamo ora a “Cattivi scienziati”, libro tornato di grande attualità in questi tempi di pandemia. Lei denunciava già diversi anni fa la relativa facilità di pubblicare articoli scientifici basati però su dati falsificati e che quindi di scientifico avevano ben poco. Esiste una stima degli articoli scientifici pubblicati e poi ritirati? È cambiato qualcosa da allora?
«Esiste una stima di quanti siano gli articoli con problemi: è una forchetta che, a seconda della rivista (e del rigore dei controlli) va dallo 0.5% degli articoli pubblicati a quasi il 20%. Questa stima non include le riviste cosiddette predatorie, quelle cioè nate per pubblicare a pagamento qualunque cosa: come si può immaginare, in quelle riviste la frazione di sciocchezze può essere molto maggiore. Gli articoli ritirati sono solo una piccolissima frazione di quelli che meriterebbero di sparire, a causa di errori e frodi».
Un caso clamoroso di questi ultimi tempi è stato quello dello studio scientifico sull’idrossiclorochina pubblicato sul Lancet e poi ritirato. Ma com’è possibile che anche una rivista così prestigiosa sia cascata in questo meccanismo?
«Perché in tempi di infodemia (paperdemics) la capacità di dedicare tempo alla revisione dei singoli articoli è polverizzata dall’ammontare di manoscritti che arrivano per la revisione. Quando questo si unisce alla politicizzazione del dibattito su certi temi (come quello sull’efficacia dell’idrossiclorochina), e quindi alla voglia di una parte della comunità scientifica di dimostrare come le tesi di certi politici, cospirazionisti e scienziati “fringe” siano evidentemente erronee, si finisce per accettare come solidi dei dati di cui nemmeno si conosce l’origine – fraudolenta, in questo caso – senza ulteriori verifiche, perché assecondano le nostre certezze».
Il periodo della pandemia Covid-19 è stato caratterizzato da un proliferare di fake news. Quale delle tante l’ha colpita? Come facciamo a discernere una notizia vera da una fake news se anche le più accreditate riviste possono pubblicare articoli basati su frodi?
«Intanto direi che questo periodo continua, quindi non userei un tempo passato per descriverlo. Non vi sono sciocchezze che mi hanno colpito in modo particolare, perché più che altro ho visto “riciclare in salsa Covid” le sciocchezze che i cospirazionisti di tutto il mondo usano da sempre per contestare la scienza ed attirare seguaci. Per quel che riguarda il ruolo delle riviste scientifiche, bisogna riportarlo a quello che realisticamente è: una pubblicazione su rivista segna il momento in cui la discussione scientifica comincia, perché ciò che è pubblicato è fino a quel momento ignoto alla comunità scientifica (fatti salvi gli autori e 2-3 revisori). Quindi, bisogna capire che la pubblicazione non è certificazione di verità, ma mezzo per presentare i dati alla discussione. Proprio per questo motivo, ciò che viene presentato al pubblico senza nemmeno una pubblicazione – senza cioè che ci siano dati accessibili e valutabili – va considerato solo se le evidenze in supporto siano comunque messe a disposizione del pubblico, e non affermate, senza mostrare però i dati. Direi quindi che il primo punto per discernere le fake news consiste nel verificare che la base di evidenze e dati su cui un’affermazione poggia sia a disposizione di tutti, su rivista o altrove, ma trasparente ed accessibile. Il secondo punto riguarda la verifica della condivisione fra ricercatori del settore della notizia: quanti gruppi o quanti individui, i quali siano membri attivi della comunità scientifica, confermano una data notizia, la approfondiscono o ne definiscono i limiti? Se la discussione su una notizia importante è limitata a social e gruppi online, e comunque non coinvolge un numero ampio di membri riconosciuti della comunità scientifica, meglio aspettare a valutarne la solidità. Infine, un piccolo, parziale aiuto arriva anche dall’esame del tono con cui una certa notizia è data: se è strillato, se non riferisce fonti ma gioca sulla chiave dell’emotività, è più probabile che si tratti di una notizia falsa».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato