La frontiera giuliana, 54 km, si colloca in gran parte su un altopiano carsico difficile da presidiare. Dal 2015 la ‘rotta balcanica’ delle migrazioni passa anche di qui. Il Sindacato autonomo di polizia denuncia anche la carenza di personale, di mezzi adeguati e di locali per garantire un’accoglienza dignitosa. E ribadisce: «Solo un medico può rilevare patologie particolari anche ad un primo controllo»
Una distesa di abiti gettati a terra tra i prati e i boschi del carso triestino. È questa l’immagine che gli uomini della polizia di frontiera di Trieste spesso si trovano davanti nei controlli al confine con la Slovenia. Sono i vestiti che i migranti della ‘rotta balcanica’ lasciano sull’altopiano carsico dopo un lungo e difficile viaggio dalla Siria, dal Pakistan e dall’Afghanistan verso l’Italia. Un flusso che dura da trent’anni e che ha visto un boom nel 2015, con l’acuirsi della guerra in Siria: in quell’anno la Slovenia ha registrato l’ingresso di 3mila persone al giorno. Oggi i numeri sono calati ma il flusso continua a restare cospicuo, soprattutto nei mesi estivi.
Un fenomeno che ha anche ricadute importanti dal punto di vista sanitario, come spiega a Sanità Informazione il segretario del SAP – Sindacato Autonomo di Polizia di Trieste Lorenzo Tamaro: «Abbiamo più volte espresso la richiesta di avere dei controlli sanitari per queste persone. Perché arrivano dopo aver affrontato un viaggio lungo, impervio, difficile e quindi le condizioni igienico-sanitarie possono non essere ottimali. Quindi vorremmo, come accade per le navi che arrivano nei porti, che fosse fatto un controllo specifico da personale medico».
Del tema si parla anche nell’ultimo libro di Stefano Piazza e Federica Bosco “Sbirri, maledetti eroi” (Paesi edizioni) con un apposito paragrafo dal titolo “Frontiera calda tra Italia e Slovenia” in cui vengono spiegati i motivi che rendono questo confine difficilmente presidiabile: «Quando erano ancora attivi i valichi di confine – si legge nel libro – le unità di polizia di frontiera risultavano 260, oggi mancano all’appello più di 150 uomini per presidiare i 54 chilometri di confine».
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Il confine giuliano non è facile da presidiare, come magari può essere quello del Brennero o di Tarvisio: «Il carso triestino – spiega Tamaro – è facilmente transitabile a piedi. La parte terrestre confina con la Slovenia, paese europeo, dove vige il trattato di Schengen ma abbiamo anche una frontiera marittima a Trieste, il porto, dove c’è la frontiera extra Schengen e arrivano anche navi da paesi non aderenti al trattato, come la Turchia. Quindi abbiamo due frontiere diverse nella stessa città con due tipologie di controlli diversi. La parte terrestre con la libera circolazione, la parte marittima no», spiega Tamaro.
Anche per questo il tema dei controlli sanitari assume un’importanza particolare, non solo per gli agenti di polizia: «Abbiamo chiesto con forza questi controlli sanitari, come succede per le navi che arrivano nei porti, e vorremmo che fossero eseguiti proprio da personale medico. È ovvio che ognuno ha le sue professionalità, noi non siamo dei medici quindi magari un medico può rilevare patologie particolari anche ad un primo controllo, cosa che noi non siamo in grado di fare. Credo rappresenti una tutela sia per gli operatori che vengono a contatto con queste persone, che per la comunità e per le stesse persone che vengono rintracciate, che possono riscontrare queste patologie e curarle».
Tamaro sottolinea che tuttavia non si sono riscontrati in passato casi di patologie particolari o gravi, se non la scabbia che è molto diffusa. «Ma è chiaro che noi vorremmo essere tutelati e prevenire eventuali malattie», continua il segretario SAP di Trieste.
Ma questa non è l’unica rivendicazione del SAP. In primis c’è la richiesta di aumentare gli uomini destinati al controllo della frontiera, che negli anni scorsi hanno subito un forte taglio del personale. E poi quella per avere più locali dove poter raccogliere queste persone, perché un’altra delle difficoltà riscontrate è dove dislocare queste persone per le operazioni di identificazioni e validazione degli atti. «È importante avere dei posti dove poter raccogliere queste persone e lavorare in sicurezza, oltre che dare loro un’accoglienza dignitosa almeno durante le operazioni di polizia – sottolinea Tamaro -. Abbiamo anche difficoltà ad avere dei mezzi adeguati: si opera sull’altopiano carsico, ci sono alle volte delle difficoltà a percorrere delle strade che sono sterrati, quindi non tutto asfaltato, spesso si va anche in mezzo ai boschi. Le autovetture sono vecchie e spesso sono utilitarie inadatte». L’estate è alle porte, e la rotta balcanica potrebbe presto riattivarsi.
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