Si trova all’ospedale San Paolo ed è centro regionale per la diagnosi e la cura delle mutilazioni genitali femminili. La responsabile del centro: «Pratica in calo negli ultimi due anni grazie ad un lavoro contro l’isolamento della donna e sulla famiglia»
Un ambulatorio di ginecologia dedicato alle donne straniere, provenienti in prevalenza dall’Africa. Si trova all’Ospedale San Paolo di Milano, dove ogni anno trovano assistenza per il parto o per la diagnosi e la cura delle mutilazioni genitali. Uno staff tutto al femminile, guidato dalla dottoressa Barbara Grijuela e formato da ginecologhe, specializzande, mediatrici culturali, assistenti sociali e psicologhe, offre loro assistenza a 360 gradi.
«La nostra è un’attività ambulatoriale – spiega a Sanità Informazione la dottoressa Grijuela -. Ci prendiamo cura delle donne immigrate, ci occupiamo di gravidanze e siamo centro di riferimento regionale per la diagnosi e la cura delle mutilazioni genitali femminili che hanno una prevalenza degna di nota nella popolazione migrante. Il servizio rappresenta una sintesi del livello ospedaliero, quindi sanitario e del terzo settore, grazie alla collaborazione con la cooperativa Crinali che ci fornisce il servizio di mediazione linguistico-culturale ed il servizio di psicologia e di assistenza sociale, in modo da prendere in carico le donne a 360 gradi».
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Che tipo di esigenze ha questo gruppo di donne rispetto alle italiane?
«Innanzitutto hanno bisogno di ascolto. Dal punto di vista culturale esistono notevoli differenze nella gestione della gravidanza e delle problematiche femminili rispetto alla popolazione occidentale. Sono spesso donne isolate, con il problema della comprensione linguistica e non solo. Si aggiungono problematiche sanitarie specifiche: ad esempio le donne egiziane hanno un’alta prevalenza di tagli cesarei fatti nel Paese di origine, quindi spesso arrivano in Italia al terzo, quarto o quinto taglio cesareo con problematiche legate a questi interventi reiterati. Le donne dell’area sub-sahariana invece hanno un’alta prevalenza di alcune malattie complicanti la gravidanza o l’accrescimento intrauterino, mentre le donne che provengono dal continente indiano hanno un’alta prevalenza di diabete. Esistono poi problematiche specifiche che sono praticamente sconosciute alle donne, e dunque le cure sanitarie vengono prestate in ritardo».
In che percentuale hanno subito mutilazioni ai genitali femminili?
«Le donne egiziane, che rappresentano il 24-25% della nostra popolazione, sono mutilate nel 90% dei casi. Complessivamente le donne che abbiamo in carico al centro che provengono da Paesi a tradizione mutilatoria rappresentano il 20-25%».
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Come agite in questi casi?
«Innanzitutto è importante riconoscere la problematica. Infatti, al di là di quella che è la mutilazione genitale più eclatante che è l’infibulazione, presente in realtà in una piccola percentuale delle nostre donne perché si pratica in Paesi come la Somalia e la penisola di Gibuti, la maggior parte delle nostre pazienti sia egiziane che nigeriane hanno mutilazioni genitali di primo e secondo tipo, che prevedono l’asportazione di piccole parti dei genitali esterni e non sono spesso identificabili se non con l’occhio allenato, esperto e formato. Una volta riconosciute, siccome sono donne in prevalenza in gravidanza che fanno visite tutti i mesi, abbiamo il tempo per fare consulenza. Quindi normalmente dalla seconda valutazione in poi affrontiamo la tematica in maniera più possibile non giudicante, per cui anche in questo caso serve la formazione. Partiamo dalla storia della donna, se ricorda dove è stato fatto, quando, da chi, e se sa di essere mutilata. Le donne nigeriane, ad esempio, vengono mutilate pochi giorni dopo la nascita e non hanno memoria della pratica, mentre invece le donne egiziane, che di solito vengono mutilate in età prepubere, se la ricordano, ma essendo una cosa normale dal punto di vista culturale nel loro Paese, ne perdono la memoria. Alla visita successiva, a quel punto, se sono in gravidanza e ci sono bambine in utero o già nate in una famiglia, chiediamo alla coppia cosa pensa della mutilazione e arriviamo sostanzialmente a capire quali sono le loro intenzioni rispetto alle bambine già nate o che arriveranno. La reazione di solito, stabilendo un rapporto empatico e di fiducia, è possibilista. Da pochi anni a questa parte, due o tre al massimo, anche la loro visione sta cambiando e la maggior parte oramai ci dice che non faranno subire la pratica alle loro bambine. Questo per noi è un grande successo dei tempi, delle culture e anche nostro».
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