Dalpiaz (psicoterapeuta): «Si basa su un modello di psicoterapia intensivo breve, della durata di tre settimane. I giocatori d’azzardo sono generalmente classificati in tre categorie: persone prive di problematiche pregresse, individui emotivamente vulnerabili e impulsivi antisociali»
Un uomo d’affari andato in pensione troppo presto che, appassionato di sport, si rifugia in un centro scommesse. Una donna insoddisfatta della sua vita sentimentale che, in cerca di nuove emozioni e stimoli, scopre il gioco d’azzardo. Un giovane iperattivo che vive al limite della legalità e, non riuscendo ad accontentarsi di trasgredire con alcol, droghe e belle donne, finisce seduto ad tavolo da gioco. Tre persone che, nonostante la diversità dei loro percorsi di vita, hanno finito per incontrarsi sulle colline toscane, nei pressi di Siena. È qui che sorge Orthos, una comunità che, dal 2007, accoglie coloro che soffrono per il disturbo da gioco d’azzardo.
«Il programma Orthos – spiega Claudio Dalpiaz, psicologo, psicoterapeuta, responsabile area sud del progetto – è un modello di psicoterapia intensivo della durata di tre settimane, alternativo ai classici interventi residenziali che prevedono una permanenza di 6-12 mesi ed oltre. Gli ospiti del progetto vengono calati in una dimensione naturalistica, lontana da centri abitati, che ben si sposa con la tipologia di attività proposte. Pure l’utilizzo degli smartphone è limitato a due brevi momenti della giornata per consentire il contatto con le persone care. Anche i familiari sono coinvolti nel percorso: hanno la possibilità di partecipare ad incontri di gruppo e colloqui per acquisire gli strumenti necessari a sostenere la persona dipendente dal gioco d’azzardo quando tornerà alla vita di tutti i giorni».
Dalla sua inaugurazione ad oggi Orthos ha accolto quasi 500 persone, suddivise in gruppi di dieci. «Sono principalmente gli uomini a sviluppare una dipendenza da gioco d’azzardo – aggiunge lo psicoterapeuta – anche se negli ultimi tempi c’è stato un aumento del fenomeno anche tra le donne. Nonostante ciò, l’affluenza al femminile è rimasta comunque più contenuta rispetto a quella maschile, poiché le signore sono, in genere, più reticenti ad esternare ed accettare questa particolare tipologia di disagio».
I giocatori d’azzardo sono generalmente classificati in tre differenti categorie: «Ci sono coloro che, pur avendo una vita serena, in assenza di problemi e disturbi psicologici pregressi, finiscono nella rete del gioco d’azzardo per semplice abituazione e condizionamento – commenta Dalpiaz -. Si tratta di un gruppo assai esteso in Italia, poiché nel nostro Paese esiste una diffusione capillare del gioco d’azzardo: dai gratta e vinci acquistabili in tabacchi e supermercati alle sale giochi dislocate nei punti più disparati anche di una stessa città». È questo il caso dell’uomo d’affari pensionato rifugiato nel centro scommesse per trascorre il suo tempo libero che sembra scorrere troppo lento.
«Poi – sottolinea lo psicologo – esiste un secondo gruppo. Si tratta di quegli individui definiti emotivamente vulnerabili che presentano tratti o un disturbo vero e proprio di ansia, depressivo o dell’umore. Ancora, una malattia somatica, problemi familiari o sentimentali. Sono persone portatrici di un dolore, una sofferenza, una fragilità che mettono in atto, attraverso il gioco, una forma di evitamento, di distrazione». È qui che si colloca la donna delusa dalla sua storia d’amore.
«Infine – dice Dalpiaz – esiste un terzo gruppo, più ridotto, rappresentato dagli impulsivi antisociali che spesso si ritrovano anche ad avere problemi con la legge». Giovani che dipendono non solo dal gioco, ma pure da alcol e droga. «Di solito solo le persone classificabili nel primo e secondo gruppo ad accedere al nostro centro riabilitativo», aggiunge l’esperto.
Il percorso, ovviamente, non si esaurisce totalmente al termine delle tre settimane. «Nel corso dell’anno – spiega il responsabile area sud del progetto – sono previsti degli incontri prima più ravvicinati, poi maggiormente distanziati nel tempo (a 3 mesi, 6 mesi ed un anno) per verificare che non ci siano state ricadute o che, laddove fossero capitate, siano state ben gestite».
Non rinunciare al follow-up è fondamentale, poiché «dalla valutazione globale si evidenzia un miglioramento netto, complessivo, delle condizioni di vita delle persone che hanno frequentato il programma e che – conclude Dalpiaz – hanno regolarmente seguito gli incontri di verifica».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato