L’attore tra i testimonial della serata ‘M4M-Music for Memory’ all’Università Cattolica. Alle istituzioni dice: «È una malattia costosa a livello economico e in termini psicologici perché i parenti non riescono mai a capire come prendere le persone. Se avessi avuto un aiuto avrei commesso meno errori»
Raccontare una malattia è sempre una cosa difficile, soprattutto quando a farlo sono i familiari diretti. I sentimenti, le emozioni, il dolore rendono difficile attingere al pozzo dei ricordi. Lo ha fatto con coraggio l’attore Giulio Scarpati che all’Auditorium dell’Università Cattolica di Roma ha letto alcuni brani del suo libro “Ti ricordi la Casa Rossa? Lettera a mia madre”, affetta dal morbo di Alzheimer e scomparsa nel 2014. L’occasione è stata “M4M-Music for Memory”, un aperitivo in musica che ha visto protagonisti altri testimonial come gli attori Elena Sofia Ricci e Luca Zingaretti: obiettivo, raccogliere fondi per realizzare al Policlinico Gemelli di Roma un Centro di ascolto in grado di offrire ai malati di demenza (Alzheimer ed altre forme) e alle loro famiglie informazioni sullo stato della ricerca e sulla cura delle demenze, e risposte scientificamente validate alle numerose e incontrollate ‘fake news’ che circolano in internet e sui media. Tra gli organizzatori l’Aima – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer guidata da Patrizia Spadin e il neurologo Paolo Maria Rossini che si è esibito con la sua band in un concerto. L’evento ha anticipato la XXV Giornata mondiale della malattia di Alzheimer del 21 settembre, giornata di sensibilizzazione verso una malattia che ancora non ha una cura e che colpisce in Italia oltre un milione di persone: nel mondo la demenza rappresenta la settima causa di morte. «È una malattia costosa a livello economico e in termini psicologici perché i parenti non riescono mai a capire come prendere le persone», spiega Scarpati a Sanità Informazione.
LEGGI ANCHE: ALZHEIMER, ROSSINI (GEMELLI): «FONDAMENTALE DIAGNOSI PRECOCE, SOLO COSI’ SI PUO’ RALLENTARE MALATTIA»
Scarpati, lei ha definito la malattia dell’Alzheimer una malattia che toglie le parole, però lei le parole in passato ha deciso di scriverle in un libro…
«Sì, di fronte alla malattia di mia madre ho pensato, dato che non riuscivo a digerirla e la rifiutavo, che così avrei avuto modo per ricordare a lei le cose che io volevo ricordare del nostro passato, dell’infanzia, anche perché mi sembrava assurdo, dato che mia madre era una donna molto attiva, vederla improvvisamente come se avesse un blackout completo, come fosse un’altra persona. Allora volevo anche ricordare com’era e far sì che quello che stava vivendo in quel momento fosse solo una parte della sua vita. La cosa più importante, in queste situazioni, è che per comunicare impari a usare i gesti e non le parole perché con questa malattia le parole non servono».
Lei ha vissuto questa esperienza drammatica da figlio. Che consiglio può dare alle famiglie che vivono purtroppo questa situazione? Secondo lei è sufficiente la comunicazione e l’informazione che viene fatta ai parenti delle persone che soffrono di questa malattia?
«All’epoca, quando mia madre ha iniziato ad ammalarsi di Alzheimer, quindi parlo del 2008-2010 fino agli ultimi quattro anni molto duri, era ancora più clandestino l’Alzheimer, sicuramente adesso se ne parla di più. Alle istituzioni voglio dire innanzitutto che l’Alzheimer è un costo elevatissimo per una famiglia normale, io mi sono potuto permettere tante cose ma una persona che ha uno stipendio normale non può spendere quelle cifre per badanti, infermiere, ecc. Per cui è una malattia costosa a livello economico e poi è costosa in termini psicologici perché i parenti non riescono mai a capire come prendere le persone. C’è quello che si offende perché non viene riconosciuto o quello che sottolinea tutti gli errori del malato. Io nel mio piccolo nel libro ho cercato di raccontare tutti gli errori che ho fatto: per esempio quando l’ho portata a Napoli a vedere i luoghi della sua infanzia con mia sorella, quando lei mi ha detto di una chiesa che stavamo visitando ‘Ah, a Napoli c’è una chiesa proprio così’ e io risposi ‘Ma siamo a Napoli!’, come se volessi correggerla. Ma è la cosa peggiore da fare, perché per una persona che non ha orientamento sentirsi aggredito o comunque investito di altro non aiuta. È già spaesata, così ancora di più. Queste cose si imparano vivendo e facendo errori. Se avessi avuto un supporto di qualcuno che mi avesse detto ‘guarda, non devi far così’, sicuramente avrei iniziato prima a correggermi».