“Light It up the Blue”: per la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo il mondo si tinge di blu, da Palazzo Montecitorio, all’Empire State Building di New York, fino al Cristo Redentore di Rio de Janeiro. Con l’hastag #sfidAutismo19 l’organizzazione Autism Speaking sensibilizza la popolazione e raccoglie fondi
«I casi di autismo sono aumentati in modo esponenziale negli ultimi 10 anni: prima se ne stimava uno ogni mille persone, oggi, secondo i più recenti dati americani, uno ogni 59». È Carla Sogos, neuropsichiatra infantile, professoressa di Neuroscienze umane, all’università Sapienza di Roma a parlare ai microfoni di Sanità Informazione, in occasione della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo, istituita dall’ONU nel 2007 per accendere i riflettori sull’autismo e, soprattutto, su tematiche importanti come la ricerca e l’assistenza.
L’autismo non è una malattia, piuttosto una condizione che si manifesta, in genere, entro il terzo anno di età ed è caratterizzata da deficit nell’interazione, nella comunicazione sociale e da comportamenti ripetitivi. Tutte problematiche che necessitano di un intervento precoce e continuo. Ma in Italia l’assistenza offerta è piuttosto carente: «La Sanità pubblica – dice Sogos – non riesce a rispondere a questo vertiginoso aumento di casi. I genitori riescono ad ottenere un’assistenza in convenzione per i propri figli non prima di un anno e mezzo o due dalla diagnosi. Questo si traduce in una disparità di trattamento: i servizi a cui potrà accedere un bambino con autismo saranno direttamente commisurati alle risorse economiche che avranno disposizione le singole famiglie».
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Una diseguaglianza che per la professoressa Sogos potrebbe essere, se non eliminata, quanto meno addolcita da una buona organizzazione scolastica: «La scuola non può essere sostitutiva della terapia ma può rappresentare un momento importante in cui i bambini possono apprendere sia dai coetanei, che dagli insegnanti. Ed è per questo che abbiamo dedicato l’evento organizzato dall’istituto di Neuropsichiatria infantile del Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza e del Policlinico di Roma – “Capire l’autismo: una scuola per la vita” – proprio al ruolo fondamentale della scuola per il trattamento dell’autismo».
Gli eventi di sensibilizzazione per la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo hanno coinvolto tutto il pianeta. Una luce blu ha illuminato i più celebri monumenti del mondo: da Palazzo Montecitorio, all’Empire State Building di New York, fino Cristo Redentore di Rio de Janeiro. “Light It up the Blue” è, infatti, lo slogan della campagna internazionale 2019, organizzata da Autism Speaking, con l’hastag #sfidAutismo, per informare la popolazione e per raccogliere fondi destinati a finanziare i progetti di ricerca e inclusione scolastica.
Ma una giornata da sola non basta. È necessario implementare gli interventi educativi, sociali e riabilitativi, così da migliorare la sua qualità della vita. «Il deficit fondamentale dell’autismo è la disabilità sociale, l’incapacità nell’instaurare relazioni sociali. Per tale motivo – spiega la professoressa Sogos – la scuola è una palestra di vita naturale in cui il bambino, prima, e il ragazzo, poi, imparano dai loro coetanei attraverso l’imitazione, il confronto, come comportarsi».
Il modello scolastico italiano è perfetto, ma solo sulla carta «perché – sottolinea la neuropsichiatra – tutti i bambini, a prescindere dalla loro disabilità, sono inseriti nel contesto della classe. Ma non ci sono delle attenzioni esclusive per la loro condizione: le persone con autismo, ad esempio, sono sensibili ai rumori forti ed imprevedibili. Alcuni descrivono il suono della campanella come un vero e proprio dolore fisico. Anche il passaggio da un’attività all’altra o da un luogo all’altro, come dalla classe al giardino, creano stati di confusione. Di conseguenza, affinché la scuola sia un luogo davvero inclusivo bisognerebbe creare delle condizioni sia strutturali che organizzative adeguate. Superate le barriere architettoniche, bisognerebbe superare anche le barriere della comunicazione e della socializzazione».
Qualche progresso è stato fatto, ma si tratta ancora di esempi sporadici: «Esiste la scuola “autism friendly” o il cinema “autism friendly” – commenta Sogos -. O ancora, modelli di festa “silenziosa” che permettono anche ad un ragazzo autistico di partecipare senza essere bombardato da suoni troppo forti, per lui insopportabili. Ma sono tutte esperienze isolate. Eppure, creare un ambiente adatto ad un autistico gioverebbe a chiunque: ridurre i suoni eccessivi, pianificare le attività sono tutte cose che non farebbero male a nessuno. Anzi – conclude la neuropsichiatra – aiuterebbero tutti a star meglio, in un ambiente socialmente più adeguato».