La presidente del Coordinamento: «Manca l’inclusione scolastica. Trovare un lavoro è un’impresa quasi impossibile e i salari sono troppo bassi»
«L’altro giudica ancor prima di conoscere. Si ferma ad osservare quei tratti somatici differenti, senza chiedersi quali sentimenti, emozioni, pensieri, possano celarsi dietro quello sguardo». Antonella Falugiani, presidente di CoorDown Onlus, il Coordinamento delle associazioni delle persone con sindrome di Down, e mamma di una ragazza con sindrome di Down, questa esperienza la vive da 19 anni e la rivive ogni volta che, tenendo per mano sua figlia, incontra uno sconosciuto.
Antonella Falugiani racconta la sua storia in occasione della Giornata Mondiale sulla sindrome di Down, in programma giovedì 21 marzo. Un appuntamento internazionale voluto da Down Syndrome International e sancito ufficialmente anche da una risoluzione dell’Onu. Quest’anno il tema scelto è “Leave no one behind” che tradotto significa “non lasciare nessuno indietro”, «perché – continua Falugiani – fin quando anche un solo un individuo con sindrome di Down non avrà le stesse possibilità di qualunque altro suo coetaneo, non ci sarà alcuna ragione di festeggiare».
La presidente di CoorDown non giudica i comportamenti altrui, semplicemente vorrebbe che tutti fossero meglio informati sull’argomento: «Anche io prima di dare alla luce mia figlia – racconta – ero poco e mal informata sulla sindrome di Down e sulle sue conseguenze. È per questo motivo che ho deciso di dedicare la mia vita ad un’opera di sensibilizzazione. Le persone con sindrome di Down hanno dei sogni e chiedono di poterli realizzare, vogliono essere trattati da persone adulte, ascoltati, avere un lavoro. E nessuno di questi può essere definito un bisogno speciale. Le loro esigenze sono quelle di tutti noi».
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Eppure le difficoltà cominciano già dai primi anni vita, da quelle attività che dovrebbero essere garantite a tutti i bambini, come il diritto all’istruzione. «In questi anni – aggiunge Antonella Falugiani – grazie ai progressi della ricerca scientifica è dimostrato che un percorso di assistenza precoce, adattato alle esigenze individuali porta a risultati straordinari, prima totalmente insperati. Questi interventi precoci devono andare di pari passo alla crescita culturale, affinché i nostri figli siano accolti nella maniera adeguata in ogni contesto sociale. A partire dalla scuola. Nonostante in Italia viga da diversi anni l’inclusione scolastica oggi non è attuata in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, sia per la mancanza di risorse che per una formazione inadeguata del personale. Tutti gli insegnanti dovrebbero essere preparati ad accogliere un bambino con sindrome di Down e non solo quelli di sostegno, altrimenti il risultato sarà, inevitabilmente, l’isolamento». E Antonella Falugiani queste conseguenze le ha vissute sulla propria pelle: «L’insegnante di sostegno, nella maggior parte dei casi – dice – finisce per tenere lezioni individuali fuori dall’aula, lontano dagli altri docenti e da tutti i compagni di classe».
Ma gli ostacoli, purtroppo, non finiscono mai. Terminata la scuola i giovani con sindrome di Down si trovano ad affrontare uno scoglio ancora più grande, quello dell’inserimento lavorativo. «Mediamente i nostri figli riescono a conseguire un attestato di scuola superiore o un diploma. Qualcuno è riuscito anche ad iscriversi all’università – racconta la presidente di CoorDown -. Che si sia dei diplomati o dei laureati, trovare lavoro è una difficile impresa. I proprietari di aziende ed attività commerciali preferiscono inserire in organico persone con disabilità fisica, quella intellettiva, purtroppo, fa sempre più paura. E come se non bastasse chi, invece, alla fine ce la fa e trova un lavoro deve comunque fare i conti con stipendi molto bassi e con l’impossibilità di lavorare full time. Con un lavoro a tempo pieno si perderebbe il diritto alla pensione di reversibilità».
Per non parlare, poi, delle difficoltà di avere una relazione sentimentale o di raggiungere un’autonomia abitativa: «La vita indipendente è un diritto anche per chi ha una disabilità intellettiva – spiega Falugiani – lo sancisce anche la Convenzione Onu. Ed oggi, invece, sono i genitori a decidere per i propri figli. Anche io, nonostante le mie convinzioni, le esperienze accumulate negli anni, a volte, faccio fatica a mantenere la giusta distanza, quella che ti permette di aiutare un figlio senza essere invadente. Soffro con mia figlia quando viene esclusa, ho provato dolore con lei quando senza saperlo si è ritrovata da sola a scuola perché i compagni erano in gita al mare. Non sempre è semplice trovare delle spiegazioni alle sue domande: perché mi guardano in questo modo? – mi chiede – Perché non mi invitano ad uscire? Perché credono che io non possa andare o ballare? Purtroppo – sottolinea la presidente di Coor Down – più si è consapevoli della propria condizione, maggiore è la sofferenza. Chi non conosce i propri limiti non può soffrirne».
Ma il diritto alla vita indipendente è anche una necessità: purtroppo a causa del ciclo naturale della vita arriverà un giorni in cui genitori non potranno più prendersi cura dei loro figli. «Cosa farà quando io non ci sarò più? È questa la domanda che mi pongono la maggior parte delle mamme al Coordinamento. E io rispondo sempre che la nostra unica garanzia – conclude – è crescere i nostri figli rendendoli il più autonomi possibile».