«Sperimentare il fatto che si può stare bene anche senza internet è positivo. Guidiamo i giovani ad un uso sano del web: se disinveste dalla realtà è preoccupante. I genitori devono imparare la “lingua” dei propri figli». L’intervista a David Martinelli
Dobbiamo ammetterlo, soprattutto a noi stessi. Passiamo gran parte della nostra giornata con uno smartphone in mano tra chiamate, chat, social network, mail e notifiche; ma i primi ad avere un rapporto difficile e controverso con il mondo dei media sono gli adolescenti. Per riconoscere un giovane che ha sviluppato una vera e propria web-addiction è nato il corso FAD del provider ECM 2506 Sanità in-Formazione “Internet e adolescenti: I.A.D. e cyberbullismo”, fruibile gratuitamente da pazienti, insegnanti e genitori.
Per capirne di più, abbiamo chiesto al dottor David Martinelli, psichiatra e psicoterapeuta presso il Day Hospital di Psichiatria e Psicologia delle Tossicodipendenze del Policlinico A. Gemelli di Roma, il suo punto di vista sul recente progetto “Mountain social media detox” a cui hanno partecipato studenti dell’Università Milano-Bicocca e giovani lavoratori trentini, finalizzato alla lotta alle dipendenze da web e social. I ragazzi hanno vissuto quattro giorni senza smartphone, social e connessione Internet partecipando a seminari, attività sportive, ambientali, artistiche e culturali.
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Dottore, quattro giorni senza smartphone. Cosa pensa di questa iniziativa e quali sono i benefici che può avere?
«Comincerei a dire che non bisogna demonizzare il web. Non c’è niente di male, infatti, nell’utilizzare i social. Quindi stare senza non è una necessità ma è una possibilità. Non è obbligatorio sperimentare il fatto che si può stare senza smartphone e internet, ma farlo è certamente una cosa molto positiva. Accertare sulla propria pelle che c’è questa possibilità e che non succede nulla credo sia una cosa molto utile. Io ho fatto per molti anni lo scout: non c’erano i cellulari, andavamo in montagna e si stava in alta quota senza televisione e telegiornali. Quell’esperienza mi ha segnato moltissimo, perché se da una parte ti faceva riscoprire quanto era importante quello a cui avevi rinunciato, dall’altra ti faceva capire che puoi vivere senza, eri libero. Quando tornavi a casa la televisione la usavi, ma non ne eri più schiavo. Quindi, forse, il fatto di rendersi conto che si può stare senza ci aiuta a capire che noi possiamo usare i social network ma non siamo obbligati a farlo».
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Quanto è difficile, oggi, per un adolescente, rinunciare a internet?
«Se i giovani “testano” che qualche giorno lontano dai social si vive bene lo stesso, a volte anche meglio, sicuramente continueranno ad usarli ma magari in maniera diversa, più corretta, senza esserne schiavi. Non sono quattro giorni che cambiano la vita ma l’utilità di farne l’esperienza è importante. Nel mio lavoro all’interno dell’ambulatorio per dipendenza da internet del Gemelli, ci siamo resi conto che, per i giovani, non è corretto parlare di dipendenza ma di psicopatologia webmediata, cioè di una modalità di vivere i disagi, di una problematicità nel reggere le difficoltà che la vita quotidiana ci pone. L’adolescente ha una mente ancora in formazione, quindi non si può parlare di dipendenza ma di un cattivo ed eccessivo uso del mezzo. L’uso smodato è un sintomo del giovane per segnalare un disagio più profondo».
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Come riconosciamo, allora, l’abuso di internet da parte di un ragazzo?
«Lo riconosciamo da quanto il ragazzo disinveste dalla realtà; se la rete è un qualcosa che serve ad allargare la realtà, ossia contattare gli amici più velocemente, uscire di più perché è molto più facile, mantenersi in contatto con amici molto lontani, informarsi senza fare il giro di venti biblioteche, allora sì, il web è uno strumento utilissimo. Se invece comincia a sostituire la realtà – si chatta ma non si esce con gli amici, si gioca con loro tramite pc anziché al campo di calcio – ecco, allora diventa preoccupante perché sta riducendo la sua realtà. In poche parole, se l’adolescente disinveste dal concreto allora c’è un problema. Se invece è un aiuto alla sua vita concreta e quotidiana va bene».
E come possiamo “quantificare” il corretto utilizzo del web?
«Il tempo dipende da come è organizzata e strutturata la vita del ragazzo. Non c’è un numero di ore da non oltrepassare: se utilizza tutto il suo tempo libero in rete c’è un problema. E noi ce ne accorgiamo se comincia a diminuire le uscite con gli amici, se investe poco nella scuola, se i rapporti umani perdono d’importanza e se non cerca esperienze nuove, novità, stimoli. Le cerca in rete ma non le cerca nella vita reale. Si tratta di osservare il ragazzo e vedere come si sta evolvendo».
Lei consiglia ai ragazzi il “detox” dal web?
«Andare in montagna fa benissimo e lo consiglio a tutti. Sperimentare che si può stare senza la rete è un’esperienza positiva che ci fa vedere una realtà alternativa, avere una visione più ampia. Due realtà diverse – con o senza – da poter confrontare».
In base alla sua esperienza nell’ambulatorio, il rapporto tra gli adolescenti e il web oggi è sano o no?
«È parte della loro vita. Sono nativi digitali, sono nati con il web e quindi hanno un rapporto diverso da quello che può avere una persona della mia età. Per noi è un qualcosa che è entrato nella nostra vita, per loro è qualcosa di strutturale, un cardine della loro realtà. Quindi, quello che dobbiamo capire è che è diverso il loro modo di vedere la realtà dal nostro. Se proviamo a imporre il nostro perdiamo di credibilità. Dobbiamo entrare nel loro mondo, il web per loro è un elemento fondante della propria personalità, della percezione della realtà e sulla base di questa consapevolezza, noi possiamo aiutarli a utilizzarlo bene».
Qual è il compito della scuola e delle famiglie?
«Osservare i ragazzi e come stanno evolvendo, imparare il loro linguaggio e comunicare i contenuti culturali – la scuola, educativi, la famiglia – ma nella loro lingua. Noi trasmettiamo loro valori molto importanti anche sociali ma a volte in una lingua per loro incomprensibile. È come se io parlassi di filosofia ma ancora in greco antico. I contenuti devono trasmetterli gli adulti. Attenzione: è importante capire la lingua, non essere i migliori informatici. Anche i giovani non sono maghi del pc, sono utenti, lo sanno usare. Non c’è bisogno di essere tecnicamente preparati ma di capire questi ragazzi, che modalità usano, cosa cercano. La chiave è osservarli con attenzione».
Quali sono le modalità che utilizzate per supportarli in ambulatorio?
«Il protocollo prevede la presa in carico di tutta la famiglia per cercare di capire se c’è un problema e qual è. Dopodiché, si passa alla terapia di gruppo per gli adolescenti e la terapia di supporto per la famiglia che ha la funzione di insegnare ai genitori la “lingua” dei propri figli».