Guglielmino (SIRU): «L’infertilità sia trattata come problema sanitario, non etico. Dal 2017 PMA nei LEA, ma nei fatti i costi sono ancora a carico delle coppie»
Si diventa mamme sempre più di rado, e sempre più tardi. Il vertiginoso calo delle nascite degli ultimi anni va di pari passo con la frequenza con cui le donne decidono di mettere al mondo un figlio in età sempre più avanzata. Una scelta dettata dalle motivazioni più disparate tra cui primeggiano il voler prima raggiungere la stabilità economica e, ovviamente, i casi in cui si incontra tardi l’uomo giusto. Fino ad arrivare ai casi-limite in cui la gravidanza arriva intorno all’età della menopausa, come è successo ad alcune star balzate per questo agli onori della cronaca, ultima in ordine cronologico la ex top model Naomi Campbell, mamma per la prima volta a 51 anni.
Ma se la scienza e la ricerca permettono oggi di realizzare quello che anche solo pochi decenni fa era impossibile, la biologia mette comunque i suoi paletti: portare avanti una gravidanza in età così avanzata resta comunque difficile, rischioso e, soprattutto, nella maggior parte dei casi, molto costoso. Ne abbiamo parlato con il dottor Antonino Guglielmino, ginecologo e presidente della Società Italiana di Riproduzione Umana (SIRU).
«Nella stragrande maggioranza dei casi, gravidanze così tardive vengono ottenute tramite ovodonazione. Ricordiamo che la Corte Costituzionale ha eliminato il divieto al ricorso alla fecondazione eterologa sancito dalla legge 40/2004 nella sua formulazione originaria, ed infatti negli ultimi sei anni abbiamo assistito ad un forte incremento delle gravidanze tramite donazione di gameti, per lo più in donne con ovociti non più competenti a causa dell’età».
«Con l’avanzare di quest’ultima, infatti, nella donna da un lato diminuisce la quantità di ovociti utilizzabili anche dietro stimolazione ovarica, ma soprattutto aumentano le anomalie cromosomiche. A 42 anni – spiega Guglielmino – l’80% degli ovociti prodotti presentano anomalie, a 45-46 anni quasi la totalità, che in termini concreti corrisponde ad un abbassamento vertiginoso della possibilità di iniziare e portare avanti con successo una gravidanza, sia in modo naturale, sia tramite PMA. L’età massima in cui è possibile donare ovociti in Italia, infatti, è fissata a 35 anni. È un campo in cui – osserva il ginecologo – preparando farmacologicamente la donna ad accogliere l’embrione che impianteremo, mimiamo dei processi naturali. Tanto più riusciamo a mimare questi processi, tanto più è alta la probabilità di successo».
«Il 96% di ovociti donati per la fecondazione eterologa in Italia proviene da banche estere, con i relativi costi interamente a carico delle coppie tranne che in poche virtuose Regioni come la Toscana e il Friuli Venezia Giulia, nelle quali queste procedure sono a carico del Servizio Sanitario Regionale. Tutto questo succede – ammonisce il presidente SIRU – nonostante nel 2017 la PMA (sia eterologa che omologa) sia stata inserita nei LEA, in modo evidentemente solo formale».
Uno dei motivi per cui l’età media in cui le donne si avviano alla maternità è, secondo Guglielmino, la scarsa informazione circa la salute riproduttiva e la fertilità. «Molte donne non hanno ben chiari i processi, i rischi, le tempistiche che un progetto di genitorialità può richiedere. La PMA è un percorso spesso lungo, a volte tortuoso. Se la coppia vi si approccia in età già avanzata – prosegue lo specialista – deve sapere che se i risultati arriveranno, potrebbero arrivare anche dopo alcuni anni. L’età media delle donne che accedono per la prima volta ai centri di PMA è 36,7 anni, e i tempi medi tra il primo accesso e la terapia vera e propria è di ben quattro anni. È evidente che l’età in cui sempre più si arriva ad ottenere il risultato, cioè la gravidanza, è in “conflitto” con ciò che la biologia prescriverebbe. Ma quello che è sempre bene rimarcare è che al di là di ogni altra considerazione – osserva Guglielmino – l’infertilità deve essere trattata come problema esclusivamente sanitario, non etico».
«Fermo restando che in Italia non si praticano trattamenti di PMA in donne che abbiano superato i 50 anni e che, nel nostro centro, in donne al di sopra dei 43 anni non trasferiamo più di un embrione per ciclo, perché sarebbe troppo rischioso, va detto che in generale l’aumento di rischi ostetrici è proporzionale all’età della gestante, a parità di altre condizioni», spiega Guglielmino.
«Queste gravidanze quindi sono automaticamente considerate a rischio, proprio perché aumentano le possibilità di incappare in una gestosi, o in un diabete gestazionale, o di avere emorragie. Questo è il motivo per cui, oltre ad una accuratissima anamnesi di partenza sulle condizioni cliniche della donna, una volta impiantata la gravidanza i controlli saranno serrati. E anche per quanto riguarda il parto, a meno di casi eccezionali – conclude il presidente SIRU – si opterà quasi sempre per un taglio cesareo che, in un’attenta analisi del rapporto rischio-beneficio, riserva meno incognite rispetto ad un parto naturale (spesso il primo) in donne così avanti con gli anni».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato