«La sicurezza sul lavoro è un diritto dei lavoratori ed un dovere dei datori di lavoro, ed il Green Pass consente di creare ambienti con il rischio più basso possibile di contagiarsi»
Il Green Pass nasce dall’idea di avere uno strumento comune per consentire la riapertura delle frontiere di una Europa che era abituata a circolare liberamente e che ha gran desiderio di riprendere a farlo. L’idea di abbinare al passaporto una certificazione sanitaria non è nuova e per malattie quali la febbre gialla e poche altre è ancora prassi comune chiedere certificazione della vaccinazione per entrare o ritornare da alcuni paesi. Estendendo il concetto, si è pensato di facilitare l’apertura di molte attività e la partecipazione ad eventi, siano essi sociali, culturali o sportivi, esibendo all’ingresso una certificazione di immunità dal Covid o di momentanea assenza dall’infezione.
Tale certificazione, il Green Pass, viene infatti rilasciata ai soggetti che abbiano superato la malattia, ai vaccinati ed alle persone che abbiano eseguito un “tampone” antigenico nelle ultime 48 ore o molecolare nelle ultime 72 e che sia risultato negativo.
Indubbiamente al momento in cui è stato pensato circolavano varianti del virus per le quali il vaccino forniva una copertura quasi totale anche in termini di prevenzione della trasmissione, ed i tempi di incubazione erano di 5 o 6 giorni. Ricordiamo che i vaccini possono agire a tre livelli di protezione: prevenzione dalla morte, prevenzione dei sintomi della malattia, prevenzione del contagio.
Attualmente è prevalente la variante Delta verso la quale i vaccini forniscono una protezione invariata rispetto alla letalità ed alla malattia grave (94%), ma leggermente diminuita in termini di prevenzione della malattia e della trasmissione, anche nei soggetti già vaccinati (circa 75%). Inoltre la variante Delta ha un periodo di incubazione di 2-4 giorni.
Qual è quindi il significato del Green Pass? È quello di creare ambienti in cui il rischio di contagiarsi sia il più basso possibile. Come sappiamo il rischio zero non esiste. Questo provvedimento se applicato sistematicamente consente di ridurre fortemente la circolazione del virus e di riaprire, con un rischio calcolato, la quasi totalità delle attività. In termini di salute pubblica significa ridurre enormemente il rischio di avere gli ospedali di nuovo intasati da malati di Covid e finalmente poter tornare a curare anche tutti gli altri malati.
A questo punto appare logico l’utilizzo del Green Pass a livello aziendale. La sicurezza sul lavoro è un diritto dei lavoratori ed un dovere dei datori di lavoro. Minimizzare il rischio di un’infezione prevenibile rientra perfettamente in questo ambito. Pensiamo a tutte le misure obbligatorie di igienizzazione che mirano a prevenire tante altre infezioni e che giustamente vengono imposte nei diversi ambienti lavorativi. Garantire che tutti i lavoratori abbiano il Green Pass è quindi coerente con questa impostazione e risulta difficile comprendere che possa essere percepito come elemento discriminatorio uno strumento che in realtà fornisce garanzie ai propri colleghi di avere fatto tutto il possibile per ridurre il rischio di contagiarli.
Altrettanto incomprensibili risultano le obiezioni in termini di privacy. Qui paghiamo lo scotto di non aver assunto all’inizio della pandemia, tra i provvedimenti di emergenza, quello di pensare ad alcune misure compatibili sia con i principi della privacy sia con la gestione di un’emergenza sanitaria. Per gli operatori sanitari risulta culturalmente logico ottenere i dati personali dei singoli per proteggere loro stessi e chi li circonda, e dovrebbe esserlo anche per la popolazione generale che non esita ad esibire un documento di identità insieme alla carta di credito, se richiesto per l’acquisto di un bene materiale. Ricordiamoci che quasi tutti noi difettiamo di privacy con uno smartphone in tasca.
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