Nata nel secolo scorso negli Stati Uniti è oggi una pratica diffusa in tutto il mondo. In Italia la SIMont crea una rete di psichiatri che lavorano in sinergia con guide alpine. Brega (direttore psichiatria Feltre): «Camminare in montagna consente di ascoltare il proprio corpo e superare la paura di non farcela»
È la montagnaterapia la nuova frontiera per “allenare” bene la salute mentale. A riferirlo è la società italiana di montagnaterapia (SIMont). Questa pratica, nata agli inizi del secolo scorso negli Stati Uniti, si è diffusa intorno agli anni ‘30 anche in nord Europa, per arrivare ad essere strutturata alla fine degli anni ’80. Nel 1994 negli Usa si diffonde una copiosa letteratura sui benefici della montagna dove la Wilderness Therapy o l’Outdoor Behavioral Healthcare via via assurgono a vere e proprie discipline sanitarie o educative per una varietà di popolazioni, come dipendenti da sostanze, persone con disabilità o malattia psichiatrica, e giovani problematici. In Italia si comincia a parlarne alla fine degli anni ’90 in ambito psichiatrico, ma occorre attendere il nuovo secolo perché si diffonda anche in altri settori di patologia, come dipendenze, minori problematici, disabili fisici e mentali. Nel 2006 si crea una rete di operatori e istruttori su tutto il territorio nazionale e viene adottato il termine di montagnaterapia. Solo in tempi più recenti (2018) però nasce un’ampia produzione scientifica e la SIMont diventa il punto di riferimento di quanti, in ambito medico, scelgono di intraprendere percorsi in quota per migliorare la condizioni di pazienti affetti da patologie della mente.
Oggi è praticata su tutto il territorio nazionale, anche se il primato spetta sempre alle Dolomiti. Ed è proprio su queste montagne, a Feltre, in provincia di Belluno che opera Angelo Brega, direttore di psichiatria dell’ospedale cittadino che fa della montagnaterapia un punto di forza nella cura della salute mentale. «Ha una valenza riabilitativa molto varia con diversi ambiti di applicazione – spiega Brega – camminare in montagna consente di ascoltare il proprio corpo, sentirsi immersi in una natura accogliente, ma anche scoprire con umiltà e piccoli passi che certi limiti si possono superare, mentre altri devono essere rispettati. Per alcuni le barriere sono fisiche, per altri sono interiori come la paura di non farcela, la solitudine, l’incomunicabilità, il disagio psichico, ma quando a fatica si raggiunge la vetta si ha la possibilità di guardare il mondo da un’altra prospettiva».
Conoscere e vivere la montagna per imparare a gestire le emozioni che attraversano la mente. Con questo obiettivo il dottor Brega e i colleghi psichiatri che si riferiscono a SIMont formano gruppi dai sei ai dodici partecipanti e scelgono percorsi che vanno dalle due alle sei ore. «L’attività è molto varia, ci sono diversi ambiti in cui la montagnaterapia si applica – ammette -. A seconda della tipologia di utenti la montagna offre diverse possibilità che vanno dal trekking, all’arrampicata sportiva, fino allo sci da fondo. La montagna è un ambito che può essere sperimentato e declinato in modi molto diversi».
Da non confondere la gita in quota con la montagnaterapia, un progetto strutturato che prevede un certo numero di uscite con una cadenza regolare. «Più è frequente, regolare e programmata la cura, e maggiori saranno i benefici – tiene a precisare Brega –. La prassi più abituale prevede che ci siano incontri preliminari e incontri di restituzione per misurare gli effetti della montagna sulla salute mentale».
Il percorso di cura si articola con più uscite a cadenza regolare per almeno un anno e l’accompagnamento è affidato a tecnici della montagna e agli operatori della salute mentale o delle dipendenze. «Una collaborazione che permette da un lato di avere un controllo costante del paziente e dall’altra di sfruttare le competenze degli esperti della montagna (guide alpine, volontari del CAI) per conoscere al meglio il territorio da esplorare – rimarca il direttore di psichiatria dell’ospedale di Feltre -. I gruppi sono omogenei, costituiti sulla base delle motivazioni, fanno riferimento ad un servizio di salute mentale o di dipendenze, ma hanno comunque obiettivi personalizzati». Il futuro sembra essere sempre più blu e non solo in senso metaforico. «Allo scetticismo inziale, è seguito un consenso diffuso tanto che oggi alla proposta di un percorso di montagnaterapia la risposta è sempre favorevole», conclude Brega.
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