La psicoterapeuta: «Secondo un sondaggio di Hikikomori Italia, il 40% di chi non usciva di casa da tempo durante il lockdown si è sentito meglio, finalmente “normale”. Ma una volta riprese le attività il disagio è tornato più forte di prima. La DAD ha riavvicinato molti ragazzi alla scuola, chiediamo sia un’alternativa alle lezioni in presenza utilizzabile sempre»
Vivevano già isolati prima che esplodesse la pandemia e che in molte zone del mondo fosse dichiarato il lockdown. Sono gli Hikikomori (che letteralmente significa “stare in disparte”), un popolo che in Giappone sfiora il milione e in Italia i 100 mila casi stimati. Gli Hikikomori restano chiusi in casa per scelta, perché pur se in compagnia di altri avvertirebbero un’unica sensazione: la solitudine.
E come si è trasformata la vita delle persone che vivono questo disagio esistenziale quando l’isolamento non è stato più una scelta volontaria ma un’imposizione? A rispondere a Sanità Informazione è Chiara Illiano, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice dell’area psicologica di Hikikomori Italia per il Lazio, la prima associazione nazionale italiana che offre informazione e supporto sul tema dell’isolamento sociale volontario giovanile.
«Il fenomeno degli Hikikomori durante il lockdown – spiega Illiano – si è amplificato. Ma per comprendere bene come questo disagio sia aumentato è necessario sottolineare che gli Hikikomori possono vivere un grado diverso di isolamento: c’è chi pur percependo questa voglia di solitudine riesce a contrastarla vivendo una vita normale, chi invece è totalmente chiuso in se stesso».
«Di conseguenza – aggiunge la psicoterapeuta -, gli Hikikomori che durante il lockdown si trovavano nel primo stadio, e che quindi sentivano il bisogno di isolarsi ma non lo facevano concretamente, hanno peggiorato la loro condizione. Lo stesso vale per coloro che stavano cercando di superare il proprio disagio attraverso percorsi personali o di psicoterapia. Nel primo caso l’isolamento imposto ha assecondato il bisogno di solitudine. Nel secondo, ogni tentativo di riaffacciarsi al mondo è stato improvvisamente interrotto».
Le persone che invece non uscivano da casa da molto tempo, che vivevano la fase più critica dell’Hikikomori, hanno mostrato un miglioramento cosiddetto “paradossale”. «Si sono ritrovati ad essere come tutti gli altri – dice la psicologa -: non hanno percepito più quella differenza tra la loro chiusura e la socialità degli altri. Si sono sentiti finalmente “normali”, privi di quella pressione sociale che li vorrebbe sempre impegnati, concentrati su specifici obiettivi».
Infatti, secondo un sondaggio condotto dalla stessa associazione Hikikomori Italia, il 30% durante il lockdown si è sentito “meglio” e l’11% “molto meglio”. Una sensazione che ha trovato conferma nella diminuzione delle richieste di aiuto. «Anche molti genitori hanno avuto la percezione che la condizione dei propri figli fosse migliorata ed invece era solo apparenza: l’isolamento dell’Hikikomori, infatti, non è di per sé “il problema”, quanto piuttosto – sottolinea l’esperta – un sintomo di un problema, che rimane psicologico-adattivo».
Terminato il lockdown il disagio è tornato più forte di prima: «Hanno subito un duro contraccolpo perché gli altri hanno ben presto ripreso la loro vita e gli Hikikomori si sono scontrati con l’idea che forse per loro non ci sarà mai la fine del proprio personale lockdown».
Ma un lato positivo c’è stato: «La didattica a distanza avviata durante le fase 1 dell’emergenza ha riavvicinato gli Hikikomori alla scuola, giovani – racconta Illiano – che non seguivano una lezione da mesi o addirittura da anni. Per questo, chiediamo che la DaD diventi un’alternativa alle lezioni in presenza utilizzabile sempre. Così da garantire il diritto all’istruzione anche a coloro che, per problemi o disagi personali – conclude la psicoterapeuta -, non sono in grado di varcare la soglia di una scuola e di condividere la giornata con professori e compagni di classe».
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