Lo specialista: «Durante l’ultimo anno sono calate le nuove diagnosi di HIV. Due le motivazioni: meno test in pandemia, ma anche maggiore efficacia delle terapie per la riduzione della trasmissione. Tuttavia, a livello globale, l’HIV è ancora un’epidemia»
Negli ultimi 12 mesi, in Italia, è diminuito il numero di nuovi casi di HIV. Ma è davvero una buona notizia? Gli esperti invitano a leggere i dati con cautela. «Le terapie di cui disponiamo attualmente sono senza dubbio efficaci e giocano un ruolo determinante nella riduzione della trasmissione dell’infezione, ma se durante la pandemia sono stati diagnosticati meno casi di HIV è anche perché sono stati eseguiti un minor numero di test -, spiega Franco Maggiolo, responsabile US Patologie HIV Correlate e Terapie Sperimentali, ASST Papa Giovanni XXIII -. L’HIV, a livello globale, è ancora un’epidemia. Lo è soprattutto nei Paesi più a sud del mondo, dove la situazione, del tutto fuori controllo, è ben lontana dagli obiettivi fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità».
Ed è per non abbassare la guardia che, anche quest’anno, i maggiori esperti internazionali si sono dati appuntamento al Congresso ICAR, l’Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, punto di riferimento per la comunità scientifica in tema di HIV-AIDS, Epatiti, Infezioni Sessualmente Trasmissibili e virali. L’evento, giunto alla sua 14ª edizione e inaugurato il 14 giugno, proseguirà fino a giovedì 16 giugno, a Bergamo, presso il Centro Congressi Giovanni XXIII.
Il Congresso ICAR 2022 rilancia anche l’evidenza scientifica: U=U, ovvero Undetectable=Untransmittable (Non rilevabile=Non trasmissibile). «Nonostante la Consensus Conference del 2019 abbia sancito l’evidenza scientifica dello U=U, ovvero che una terapia antiretrovirale assunta in modo corretto renda la viremia non più rilevabile nel sangue, lo stigma nei confronti dei malati di HIV è ancora molto evidente», aggiunge Franco Maggiolo che, con altri, presiede il Congresso Icar.
Di strada da fare ce n’è ancora tanta: «Innanzitutto – aggiunge lo specialista – è necessario incrementare l’accesso ai test: molte persone preferiscono non farlo per non sapere, proprio per paura di sentirsi emarginate. In secondo luogo, andrebbe ripristinata la possibilità per il personale non medico, opportunamente formato, di eseguire i test. Ancora, si dovrebbe intervenire sulla profilassi pre-esposizione (PrEP), che permette di prevenire l’infezione, ma che in Italia non è ancora di facile accesso. La diffusione sul territorio italiano, infatti – spiega lo specialista -, non è uniforme, i costi sono differenti tra le regioni e soprattutto non rimborsabili. Ciò crea problemi ai soggetti che più ne avrebbero bisogno, come studenti, immigrati, sex workers».
Al Congresso ICAR sono previsti oltre mille tra specialisti e clinici, giovani ricercatori, infermieri, operatori nel sociale, volontari delle associazioni pazienti. Saranno assegnati 10 premi ai giovani ricercatori italiani con gli ICAR-CROI Awards 2022, gli Scientific Committee Awards e i SIMIT Special Awards. Vi sarà un coinvolgimento delle scuole superiori con RaccontART, il concorso artistico mediante il quale ICAR dedica particolare attenzione alle tematiche legate alla prevenzione e al coinvolgimento della società civile.
Sempre in tema di prevenzione, durante le giornate congressuali, ICAR darà la possibilità di effettuare gratuitamente il test per HIV, HCV e Sifilide. Quest’anno l’evento sarà arricchito anche dalla mostra “40 anni positivi. Dalla pandemia di AIDS a una generazione HIV free”, al Bergamo Science Center dal 2 al 15 giugno: «Documenti d’archivio, manifesti e installazioni raccontano la grande rivoluzione della terapia e lo sviluppo della ricerca scientifica, con il coinvolgimento dei movimenti di attivismo civile che hanno dato vita a una medicina partecipata e di prossimità», dice Maggiolo.
Le persone con HIV stabilmente curate e con una buona risposta viro-immunologica non si sono rivelate maggiormente esposte ad acquisire l’infezione, ad avere una malattia grave né a morire a causa del Covid: lo dimostra uno studio italiano presentato in occasione del Congresso ICAR. «Questo ricerca, relativa alla fase in cui non erano disponibili i vaccini, prende in considerazione 155 casi di persone con HIV e con infezione da Covid-19 confrontati con altre 360 con HIV che il Covid non l’hanno avuto. Nessuna delle caratteristiche dell’HIV correlava col rischio di acquisire il Covid.
Le variabili che favorivano il contagio e la gravità dell’infezione erano l’età più avanzata e la presenza di diabete. Rispetto al rischio di decesso, le uniche due variabili correlate erano l’insieme delle comorbidità e dei valori di cellule CD4 all’ultima misurazione più bassi. Nonostante quest’ultimo elemento possa far pensare all’immunodepressione da AIDS, non si rileva comunque un nesso tra le due infezioni.
Inoltre, circa il 20% delle persone con HIV ha avuto un’infezione da Sars-CoV-2 totalmente asintomatica; quindi, molte misurazioni sono anche falsate dal mancato conteggio di queste infezioni. A Bergamo – racconta Maggiolo – sono state identificate 26 persone con HIV che hanno avuto Covid: un terzo era totalmente asintomatico, gli altri hanno avuto una malattia paucisintomatica, durata 3 giorni, con sintomi simil-influenzali come febbre, tosse, mialgie, faringite, raffreddore importante. Pertanto, in questo momento nei pazienti HIV la quarta dose non è fondamentale. Diverso sarà il discorso in autunno, quando un nuovo vaccino, forse un booster bivalente covid-omicron, sarà raccomandato per gran parte della popolazione».
«Siamo senza dubbio ancor lontani dall’eradicazione dell’infezione – continua Maggiolo -, ma la ricerca scientifica non ha mai smesso di investire tempo e risorse per il raggiungimento di questo obiettivo. Tanto che, non possono essere considerati affatto secondari gli ultimi successi ottenuti dagli scienziati. È grazie a loro se oggi disponiamo delle terapie long-acting, che possono servire sia per il trattamento, che per la prevenzione. Somministrati per via iniettiva hanno una durata che può arrivare fino a due mesi. Ora, i riflettori della ricerca sono puntati su una serie di farmaci, che pur essendo ancora in fase di sperimentazione, ci permetteranno presto di migliorare la qualità della vita anche di quei pazienti che ancora oggi – conclude l’esperto – non rispondono in maniera ottimale alle terapie attualmente in uso».
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