In un Paese a macchia di leopardo in cui alcune Regioni hanno in attivo terapie domiciliari e altre no, la voce delle associazioni: «Centralizzare l’assistenza per garantire cure domiciliari a tutti coloro che ne hanno bisogno»
«Un bambino che deve sottoporsi ad un’infusione in ospedale è spaventato, mentre se quella terapia la può fare a casa mentre gioca diventa tutto più facile». È la testimonianza di Flavio Bertoglio, presidente della Consulta Nazionale Malattie Rare e dell’Associazione Italiana Mucopolisaccaridosi e Malattie Affini Onlus (AIMPS) che da due mesi ha perso il figlio diciannovenne affetto da MPS II, o sindrome di Hunter, dopo aver combattuto una lunga battaglia per ottenere il diritto alla cura domiciliare. L’AIMPS insieme all’Associazione di Gaucher, all’Aiaf (Associazione italiana Anderson – Fabry Onlus), e all’Aig (Associazione italiana glicogenosi Onlus) ha organizzato un confronto con le istituzioni per fare il punto sullo stato dei lavori dell’Home Therapy per le malattie rare in Italia e firmare un patto d’alleanza per procedere unitamente verso un piano comune che vada a compattare l’eterogeneità regionale nell’assistenza.
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«Nel nostro Paese questa è una battaglia che, soprattutto i pazienti e le famiglie, stanno portando avanti da anni», apre il dibattito Paola Binetti, Presidente dell’Intergruppo parlamentare per le malattie rare che mette l’accento sulla necessità di passare «da una visione ospedalo-centrica ad una visione territoriale che possa portare il paziente a curarsi fra le mura di casa. Garantirgli questo – prosegue la senatrice – significa garantirgli legami solidi, costanti, continui, significa consentirgli di vivere nelle migliori condizioni possibili per impiegare il suo tempo in maniera creativa, con spirito d’iniziativa e stabilità di contesti. Tutto questo sembrerebbe la cosa più naturale, ma purtroppo è difficile da realizzare e solo procedendo in una prospettiva di collaborazione forte in cui metto anche l’importante lavoro che da anni svolge l’Intergruppo parlamentare delle malattie rare, insieme al mondo della comunicazione, si possono ottenere dei risultati».
«Sarebbe auspicabile che almeno i malati più gravi non dovessero spostarsi tutte le settimane», fa notare Gianfranco Stefanelli, presidente AIG-Glicogenosi. «Voglio sottolineare che in Italia solo un paziente con malattia di Pompe (ndr. Malattia rara geneticamente ereditata) fa terapia domiciliare. Io ho parlato con i genitori di questo bimbo residente in Lombardia, e mi hanno detto che il piccolo da quando si cura a casa sta molto meglio e ha tempo di dedicarsi all’istruzione che prima era diventata marginale».
Altro problema fondamentale che è emerso rispetto alla necessità di trasportare le terapie a livello domiciliare è la situazione italiana a macchia di leopardo. «In alcune regioni si può fare, in altre ancora non se ne parla neanche», sottolinea Fernanda Torquati, presidente AIG-Gaucher che aggiunge «vorrei vedere le malattie rare trattate a livello nazionale, centrale, non dovrebbero essere gestite territorialmente perché trattandosi di malattie poco diffuse c’è una disparità di trattamento dovuta anche all’inesperienza di alcuni territori. La terapia domiciliare deve essere disponibile su tutto il territorio nazionale, non esistono pazienti di serie A e pazienti di serie B».
«Nelle regioni in cui la possibilità della cura domiciliare non viene concessa, i pazienti Fabry (ndr. malattia da deposito lisosomiale multisistemica, progressiva, ereditaria) si trovano in difficoltà a gestire le terapie perché non sempre nel loro caso la malattia gli viene riconosciuta come invalidità», spiega Stefania Tobaldini – Presidente AIAF. «Basta pensare che tanti pazienti non raccontano sul posto di lavoro di avere questa patologia e, non potendo curarsi a casa, sfruttano la pausa pranzo per scapicollarsi in ospedale e non chiedere troppi permessi. Uscire dall’ufficio, fare la terapia e tornare nel più veloce tempo possibile, li mette in serio rischio perché correndo in macchina possono incappare in incidenti o momenti di distrazione. Bisognerebbe riuscire a trovare una quadra da un confronto tra pazienti, famiglie associazioni e istituzioni e iniziare a lavorare di comune accordo».