Studi sugli effetti nocivi della microgravità e delle radiazioni ionizzanti sugli astronauti aprono la strada a nuove strategie contro invecchiamento, malattie cardiovascolari e metaboliche. Allo studio anche nuovi strumenti per la medicina di precisione, dai gemelli digitali alla farmacogenomica: sviluppati per i viaggiatori dello spazio, aiuteranno anche la salute dei “terrestri”.
Potrebbero arrivare dallo spazio molte risposte per prevenire e curare malattie dell’invecchiamento sulla Terra. E non stiamo parlando di fantascienza ma di scienza.
Il cosmo è infatti un grande laboratorio dal quale ricavare molte informazioni utili per la nostra salute. Vivere qualche mese nello spazio accelera l’invecchiamento e determina cambiamenti che di solito si verificano in 10-20 anni di vita sulla Terra, con effetti deleteri su occhi, cuore, DNA e metabolismo. E proprio lo studio dei numerosi disturbi che colpiscono gli astronauti al ritorno dallo spazio, legati all’assenza di gravità e alla produzione di radicali liberi, può diventare la chiave di volta.
La medicina spaziale sta infatti fornendo nuovi strumenti di precisione per contrastare il fenomeno dell’invecchiamento attraverso la personalizzazione di farmaci, attività fisica e dieta in base al profilo molecolare del singolo individuo. Ma non solo, sono allo studio anche programmi di intelligenza artificiale capaci di diagnosticare malattie prima ancora della comparsa dei sintomi, biopsie liquide che con un solo prelievo di sangue riconoscono le “spie” di diversi tipi di tumore, gemelli digitali con cui prevedere l’evoluzione delle malattie e nuovi sistemi di telemedicina per intervenire a distanza. In sostanza, tutte innovazioni studiate per gli astronauti, ma che in un futuro non troppo lontano potranno, appunto, aiutare anche noi “terrestri”.
A puntare i riflettori sulle nuove opportunità che arrivano “dallo spazio” sono i massimi esperti mondiali riuniti dal 13 al 15 settembre alla Fortezza da Basso di Firenze per il convegno “Costruire una civiltà nello spazio”, organizzato da Fondazione Internazionale Menarini con Nasa, Sovaris Aerospace e The Foundation for Gender-Specific Medicine.
La buona notizia è che nonostante la medicina spaziale stia ancora muovendo i primi passi è anni luce più avanti rispetto alla medicina terrestre di precisione così come molti la conoscono.
“La nostra missione – spiega Marianne Legato, presidente del convegno, professoressa emerita di Medicina Interna alla Columbia University, a capo della Foundation for Gender-Specific Medicine di New York unge – è portare alla nostra ‘famiglia terrestre’ i principi degli screening e degli interventi medici impiegati negli ultimi 65 anni per gli astronauti. Utilizzando le più recenti innovazioni saremo capaci di migliorare esponenzialmente la nostra salute, le nostre performance e la longevità”.
La ricerca spaziale sta infatti fornendo nuovi strumenti per realizzare interventi personalizzati in tema di alimentazione, attività fisica e farmaci in modo da prevenire le disabilità.
Ma non solo, precisa Marianne Legato “l’analisi di campioni biologici su capelli, saliva, condensato del respiro, sangue ecc. ci sta aiutando anche a comprendere le basi molecolari della fisiologia umana. L’analisi della capacità degli esseri umani di adattarsi a situazioni estreme di stress, sta ampliando anche le nostre conoscenze sulla neuroplasticità e sui meccanismi che il sistema nervoso impiega per mantenere l’equilibrio di fronte alle sfide uniche dello spazio. Prevenire o attenuare tali cambiamenti sarà prezioso per aumentare la longevità e migliorare la qualità di vita anche sul nostro Pianeta”.
Insomma, la vita extraterrestre è come uno stress test che mette alla prova ogni singola cellula del nostro organismo. Come spiega Michael A. Schmidt, Amministratore delegato e direttore scientifico di Sovaris Aerospace, compagnia specializzata nella medicina di precisione per i voli spaziali che ha collaborato con la NASA allo studio degli astronauti gemelli Scott e Mark Kelly: “Chi viaggia nello spazio affronta due principali sfide: la microgravità, cioè campi gravitazionali di basso valore, e lo stress ossidativo, vale a dire un aumento dei radicali liberi a un livello tale da compromettere la capacità anti-ossidativa della cellula e provocare danni al DNA. In risposta a tutto ciò, la fisiologia umana cambia per adattarsi e il risultato è una forte accelerazione dell’invecchiamento anche di 10-20 anni”
Anni di ricerche sugli astronauti, prosegue Schmidt, hanno dimostrato che “lo stress ossidativo derivato, in particolare, dalle radiazioni ionizzanti, che penetrano in migliaia di cellule a dosi elevate altera la funzione dei mitocondri, unità di produzione di energia della cellula, e di conseguenza il metabolismo di carboidrati e lipidi. Inoltre, danneggiano il DNA, modificano l’espressione dei geni e alterano la lunghezza dei telomeri, i ‘cappucci’ che proteggono i cromosomi dalla degradazione e che influiscono sulla longevità. La microgravità elimina l’impatto del carico sulle ossa e sui muscoli e determina una perdita di massa ossea. Inoltre favorisce una ridistribuzione dei fluidi verso la parte superiore del corpo che aumenta il rischio di trombosi e problemi alla vista. Per compensare questi cambiamenti il cuore funziona diversamente e perde contrattilità, mentre il ventricolo sinistro tende a diventare più piccolo e le pareti delle arterie si irrigidiscono”.
“Monitorare le conseguenze fisiche dell’esposizione degli astronauti all’ambiente ostile dello spazio è cruciale per la salute degli astronauti, ma consentirà anche di migliorare la nostra comprensione della fisiologia umana, grazie soprattutto alla medicina di precisione” conclude Michael A. Schmidt.
In questa ottica, si sta già sperimentando l’utilizzo dei “gemelli digitali” degli astronauti, modelli virtuali che simulano la fisiologia dell’individuo e permettono di prevedere in tempo reale i cambiamenti dello stato di salute e delle performance fisiche durante le missioni, in modo da ottimizzare le contromisure ed elaborare strategie di intervento personalizzate.
Come sappiamo ci sono differenze importanti fra i sessi a tutti i livelli di funzione, persino gli stessi geni, in alcuni casi, sono espressi in modo diverso. Uomini e donne non reagiscono allo stesso modo e questo avviene anche nello spazio e man mano che aumenta il numero delle donne astronauta in orbita, le differenze stanno emergendo. “Esistono già alcuni dati interessanti, sebbene riguardino campioni numericamente ridotti – sottolinea Marianne Legato – uno studio recente condotto su 5 uomini e 4 donne vissuti per 5-6 mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale ha dimostrato che l’irrigidimento delle arterie carotidi aumenta in modo più marcato nelle donne. I livelli di renina e aldosterone, che regolano la pressione arteriosa, salgono di più nel sesso femminile”.
L’insulina invece aumenta in entrambi i sessi, ma i livelli di glucosio sono più alti negli uomini che nelle donne. Al ritorno sulla Terra, aggiunge Legato “nelle donne si osserva una maggiore suscettibilità all’ipotensione ortostatica e il volume plasmatico risulta ridotto più che negli uomini. Altri studi, infine, hanno evidenziato come i problemi agli occhi colpiscano soprattutto gli astronauti maschi”.
Tirando le somme, la strada verso nuovi orizzonti è spianata. Verso l’infinito e oltre.
(Img. Nasa)