Da qualche anno la ricerca sulla malattia di Huntington promette un cambiamento epocale, con la terapia genica si potrebbe arrivare a risultati sorprendenti. Con Anna Rita Bentivoglio (neurologa Gemelli) analizziamo i risultati e le necessità dei pazienti in cura
È silenziosa e scioccante, langue per lungo tempo e poi colpisce quando la vita è ormai da tempo “normale”. La malattia di Huntington è una patologia che quella vita la cambia, non solo per chi si ammala ma anche per tutte le persone che ha intorno. La trasforma giorno per giorno con il degenerare del corpo e della mente. Da questo tunnel che a lungo è sembrato senza uscita tuttavia, ora arrivano notizie confortanti grazie alla ricerca.
Negli ultimi 10 anni sono stati fatti passi giganteschi e la strada si è aperta verso nuove terapie che potrebbero cambiare la storia di questa malattia. Sanità Informazione ha contattato la professoressa Anna Rita Bentivoglio, neurologa e responsabile dell’U.O.S Disturbi Movimento presso il Policlinico Gemelli di Roma, per fare un quadro di quello che ci attende.
«Finora – spiega – abbiamo avuto molti strumenti per alleviare i sintomi, terapie sintomatiche che sono fondamentali perché hanno migliorato la qualità e allungato la vita, ma questa è un’altra storia. Noi stiamo parlando di sistemi per silenziare un gene che, quando è mutato in un certo modo, è dannoso per il sistema nervoso centrale e che quindi potenzialmente fermano il processo patogenetico prima che questo si manifesti».
Il percorso è aperto, anche se la pandemia ha dato una piccola battuta d’arresto a quello che si stava costruendo. «Ora siamo sulla strada – concorda Bentivoglio – di recente abbiamo avuto uno stop sconcertante per tutta la comunità Huntington, medici, scienziati e pazienti. Si tratta però solo di un sassolino sulla strada, che ormai è aperta e non potrà che portarci a una vittoria finale».
Come per tutte le grandi attese non c’è un giorno prestabilito in cui accadrà, ma intanto si può mantenere alta l’attenzione come hanno fatto associazioni e specialisti con il Libro Bianco sulla malattia di Huntington, in collaborazione con l’Osservatorio Malattie Rare. Una testimonianza che aiuta a infoltire la rete intorno a malati e famiglie perché non siano mai soli.
«Sappiamo che l’interazione tra persone e ambiente – prosegue l’esperta – è in grado di accendere e spegnere dei geni. Quindi c’è un’interazione molto più complessa di quello che a volte si pensa tra il nostro patrimonio genetico e tutto ciò che ci circonda. In questo momento abbiamo la responsabilità di cercare di sostenere e supportare i nostri pazienti in modo che quando arriveranno i giorni in cui potranno essere proposte terapie significative, loro saranno nella migliore forma che noi possiamo immaginare».
Qual è la chiave perché questo accada? La risposta sta nella presa in carico multidisciplinare del malato. La dottoressa Bentivoglio, che da oltre 20 anni lavora sulla patologia di Huntington, racconta di aver visto finalmente una trasformazione nei centri dedicati. Ora i pazienti ricevono la stessa dedizione anche nella cura di altre patologie minori.
«Due o tre decenni fa – spiega – se un paziente accedeva al Pronto soccorso e riferiva di avere Huntington improvvisamente la presa in carico era solo del neurologo. Ora siamo andati oltre questo e sappiamo che una persona malata ha bisogno di una presa in carico multidisciplinare, esattamente come tutte le altre persone. Quindi nei centri dove questa malattia viene seguita, abbiamo messo insieme le forze e mettiamo a disposizione delle persone dei percorsi per affrontare i problemi che ci sono via via».
Nell’equipe non manca mai un supporto psicologico, spesso anche psichiatrico: sia per impostare una diagnosi corretta che per una terapia farmacologica. La persona ammalata può essere depressa, avere ansia, insonnia. «In questo scenario il pivot resta il neurologo, ma avere una relazione costante con altri specialisti che a mano a mano diventano familiari con la malattia e capiscono bene i problemi del malato, significa offrire un’assistenza di livello diverso e si vede come la ricaduta psicologica sia veramente ottima».
Anche i caregiver, di fronte a una simile presa in carico, vivono la malattia del proprio caro in maniera più speranzosa. «È importante – aggiunge Bentivoglio – che noi usciamo dal concetto della malattia incurabile e che ricordiamo che in medicina molto poco è guaribile. La stessa ottica va applicata anche a chi ha delle malattie neurodegenerative croniche, quindi io posso avere un obbiettivo a lungo termine che speriamo sarà soddisfatto dalle terapie che modificano la malattia, ma posso avere degli obbiettivi a medio e breve termine che sono orientati su miglioramenti possibili».
I centri aiutano inoltre ad alimentare la comunicazione tra famiglie che si confrontano con lo stesso problema. «Anche gli spazi delle associazioni in questo senso sono vitali – conclude l’esperta – dove i familiari si ritrovano con persone che condividono i loro stessi problemi. La cosa che fa sentire più soli al mondo è avere l’impressione che nel luogo dove vivo l’unica famiglia che ha questo problema è la mia. È importante condividere, ci si sente normali».
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