La robotica in campo sanitario ha migliorato la vita di professionisti e pazienti. Ma esiste un rischio occupazionale per i camici bianchi e i chirurghi? Lo abbiamo chiesto a Calogero Maria Oddo, Assistant Professor di Biorobotica nella Scuola superiore Sant’Anna di Pisa
Sale operatorie completamente automatizzate, gestite da macchine e robot super intelligenti e rapidissimi, capaci di prendere decisioni complesse in una frazione di secondo ed effettuare un trapianto in pochi minuti. È uno scenario degno di un libro di Philip K. Dick e che, per grandi linee, ricorda molto da vicino decine di film di fantascienza già visti, ma un giorno potrà diventare la normalità? I robot riusciranno a sostituire i medici? Lo abbiamo chiesto a Calogero Maria Oddo, Assistant Professor di Biorobotica, Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Come è cambiato negli ultimi anni il mondo della robotica applicata alla sanità?
«È evidente come l’introduzione di tecnologie robotiche stia avendo un impatto notevole nella pratica clinica diagnostica e interventistica in sanità. Il primo caso di successo che mi viene in mente è quello del robot per chirurgia che ha avuto una diffusione enorme in sala operatoria ed è ormai diventato uno standard per alcune procedure interventistiche. I vantaggi sono notevoli: un robot può ad esempio aumentare la precisione dell’intervento, la pianificazione, permettere al chirurgo di evitare tremori e altro. Detto questo, però, la tecnologia deve fare ancora progressi. Un esempio in questo senso è quello di permettere al chirurgo di avere il ritorno tattile che gli permetta di rendersi conto di quel che sta toccando o cucendo. I robot non ci permettono ancora di fare una cosa del genere ma la ricerca è orientata verso questa direzione. Ma non basta. I robot che navigano nel contesto ospedaliero possono migliorare la qualità di tanti servizi: distribuzione dei farmaci e di ricette, cartelle cliniche e tanto altro. Naturalmente tutto questo porta a delle sfide nella coabitazione tra persone e robot anche in termini di sicurezza. Problemi che possono essere risolti, da un lato, prevedendo ambienti separati o, dall’altro, meccanismi atti a migliorare la coesistenza».
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Quali sono i possibili sviluppi e, lavorando anche un po’ di fantasia, quando è ipotizzabile l’avvento di un robot quasi indistinguibile da un essere umano?
«Chiaramente c’è molta “science fiction” in chi si aspetta robot che pensano, che sono in grado di decidere e addirittura guidare le masse. Prima di tutto, dobbiamo capire se uno scenario del genere sia desiderabile. Sicuramente noi robotici non vogliamo andare verso questa direzione e attualmente la tecnologia non lo permette. Il nostro obiettivo, sia come robotici che come bioingegneri che fanno robotica e biorobotica, è quello di generare parti di ricambio del corpo. È il caso dell’amputazione di organi esterni, come una mano o una gamba, e di organi interni, come fegato o pancreas. È importante riuscire a non essere costretti a sostituirli solo tramite i trapianti».
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Il robot riuscirà mai a sostituire il medico?
«Anche su questo aspetto dobbiamo riflettere e capire se è desiderabile. Noi crediamo che la tecnologia robotica e l’intelligenza artificiale possano portare ad un miglioramento della effettività della diagnostica, per dirne una. Quindi automatizzare alcune decisioni, alcune analisi, e magari riuscire a vedere alcune cose che l’occhio umano non riesce, per vari motivi, a vedere. Nel far questo ovviamente non vogliamo sostituire il medico. Anzi, c’è un bisogno enorme di medici specialisti anche in discipline diagnostiche. Per questo un avvento tecnologico che può portare ad automatizzare alcuni processi non deve essere inteso come una minaccia: il decisore ultimo rimarrà il medico e le sue qualità e capacità restano insostituibili».