Secondo uno studio realizzato dai neurologi della Società italiana di Neurologia e diretto dal professor Giovanni Defazio dell’Università di Cagliari, un consumo moderato di caffè è in grado di ritardare l’esordio della malattia e di indurre una più lenta evoluzione
Il caffè aiuta a socializzare, alza la pressione ed è un buon viatico per migliorare la concentrazione, il funzionamento del nostro metabolismo e del cuore, mentre riduce lo stato infiammatorio. Se assunto trenta minuti prima dell’esercizio fisico inoltre può aiutare nella resistenza allo sforzo e a diminuire la percezione del dolore, mentre dopo una notte insonne assumere 200 milligrammi di caffè che corrispondono a due tazzine appena svegli e altri 200 milligrammi 4 ore più tardi secondo i ricercatori dà la sensazione di aver riposato bene tutta la notte. Ciò che non tutti sanno è che il caffè aiuta a prevenire l’insorgere di una malattia degenerativa come il Parkinson.
A scoprire il «potere» del caffè sul Parkinson è uno studio effettuato dai neurologi della Società Italiana di Neurologia (SIN) e diretto dal professor Giovanni Defazio dell’Università di Cagliari. Allo studio hanno preso parte le Università di Bari, Catania e Verona. Oltre al dipartimento di neurologia dell’ASST Pavia-Voghera, all’IRCCS Neuromed di Pozzoli e all’Albert Einstein College of Medicine di New York. Secondo questo lavoro, pubblicato su Parkinson’s & Related Disorders, infatti, un consumo moderato di caffè ritarda l’esordio della malattia e in caso di manifestazione la rende meno grave.
Sempre a sostegno della teoria che il caffè sia un deterrente del Parkinson, c’è lo studio diretto da Ronald Postuma dell’Università di Montreal, secondo il quale il caffè non solo avrebbe un ruolo protettivo sullo sviluppo della malattia, ma agirebbe anche come farmaco potenzialmente in grado di ritardare la progressione della stessa una volta che si è sviluppata. «Siamo ancora nell’ambito delle forti probabilità – tiene però a puntualizzare Giovanni Defazio – dalle ricerche è emerso infatti che esistono diversi fattori di rischio, come i pesticidi, ed altri come il caffè, l’attività fisica moderata, ma anche il thè, la vitamina E che sono protettivi. Ciò che ancora deve essere compreso è come indirizzare l’azione di questi fattori per una migliore aderenza e dunque una riduzione del rischio. Infatti, non tutti i dosaggi di caffeina sono efficaci allo stesso modo. Di sicuro possiamo dire che il caffè previene la malattia, ne ritarda l’esordio e probabilmente induce una più lenta evoluzione. Ma non consideriamo il caffè come una sorta di panacea neuro-protettiva perché c’è molto da studiare».
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