Salute 11 Gennaio 2021 08:00

Il “caso Veneto”: da modello virtuoso a maglia nera, ecco cosa è cambiato dalla prima ondata

Da regione presa ad esempio durante la prima ondata, ora il Veneto attraversa una crisi e registra cifre record di nuovi contagi. Con Giovanni Leoni, presidente OMCeO Venezia, abbiamo analizzato le possibili cause di questo mutamento

Il “caso Veneto”: da modello virtuoso a maglia nera, ecco cosa è cambiato dalla prima ondata

È passato quasi un anno dai giorni di Vo’ Euganeo, dalla prima vittima ufficiale di Covid in Europa: il 77enne del piccolo comune del padovano. Da quella scelta decisiva – il sistema di tracciamento di massa tramite tamponi molecolari a tappeto – che permise in breve tempo a tutta la provincia, e poi a tutta la Regione Veneto di diventare un esempio, un modello virtuoso nella gestione dell’epidemia. Superata la felice parentesi estiva in cui tutta l’Italia aveva tirato un sospiro di sollievo, dall’autunno a oggi il Veneto è stato letteralmente travolto dalla seconda ondata della pandemia. Insieme a Giovanni Leoni, vicepresidente Fnomceo, segretario regionale CIMO e presidente dell’OMCeO di Venezia, Sanità Informazione ha cercato di indagarne la cause e di prevedere gli sviluppi futuri.

La partita più difficile per il Veneto

«È successo che si è optato per il mantenimento della zona gialla a oltranza – spiega Leoni – deciso in base a determinati parametri (come l’Rt) ma soprattutto per la possibilità di attivare fino a mille posti in terapia intensiva. Questa decisione – continua – ha fatto sì che il virus circolasse indisturbato in maniera consistente, portandoci in breve tempo ad avere le terapie intensive piene oltre il 30% (che è considerata la soglia di allarme) e oltre il 50% per quanto riguarda le sub-intensive. La grande differenza tra la prima e la seconda ondata, in Veneto – aggiunge Leoni – è stata assistere alla riconversione dei reparti in terapie intensive, quindi con pazienti non autosufficienti ma dipendenti dall’assistenza del personale. Il personale a sua volta si è trovato a gestire un carico abnorme rispetto a quello che normalmente è presente nei nostri ospedali».

Perché zona gialla?

«Sicuramente ci sono state grandi pressioni da parte delle categorie economiche per mantenere il “giallo” – ammette Leoni – a dispetto delle indicazioni di tipo sanitario. Il 12 novembre, nel pieno della seconda ondata, avevamo chiesto a gran voce la zona rossa per tutto il territorio nazionale, trovando appoggio dall’area più rigorosa del governo, tra cui il ministro Speranza, meno da parte dall’area più permissiva, tra cui il presidente del Consiglio. Alla fine, come è noto, ha prevalso l’idea di mantenere l’Italia a colori, almeno fino alla fase natalizia in cui si è virati tutti verso il rosso. Da oggi – osserva Leoni – il Veneto è zona arancione, ma il mio parere è che l’unico, doloroso modo per far calare a picco i contagi sarebbe una rigorosa ed uniforme zona rossa, come il lockdown che abbiamo vissuto nei mesi di marzo e aprile».

Uno dei punti cardine su cui ha investito la regione Veneto nella lotta alla diffusione del Coronavirus sono stati i tamponi rapidi, la cui attendibilità, però, è a tutt’oggi controversa: secondo il virologo Andrea Crisanti, ex consulente di Zaia nella prima ondata, 3 positivi su 10 sfuggirebbero alla rilevazione del test rapido, mentre Roberto Rigoli, direttore del laboratorio di microbiologia di Treviso e coordinatore di tutti i laboratori del Veneto, sostiene che la loro attendibilità sia del 97%.

Tamponi rapidi: sì o no?

«Sulla questione dell’attendibilità siamo ancora work in progress, eppure – afferma Leoni – il tampone rapido è il futuro; è l’unico strumento che assolve alla funzione principale per limitare i contagi: garantire un tracciamento e uno screening di massa in tempo reale (20 minuti) e restituire la fotografia del momento epidemiologico più attuale possibile. Cosa che i tamponi molecolari, la cui lavorazione prevede più di 24 ore, non possono garantire. Tutto questo, però, a una condizione – precisa Leoni – l’affidabilità dei tamponi rapidi deve essere sovrapponibile a quella dei molecolari».

«L’assistenza territoriale e domiciliare ha sempre funzionato molto bene, e continua a farlo anche in questa fase: la maggior parte dei pazienti – spiega Leoni – è seguita a domicilio dal proprio medico di famiglia e dalle Usca. Anche sui vaccini i dati sono molto confortanti e ci danno la misura della nostra organizzazione. Tuttavia siamo ancora nella prima fase, quella “ospedaliera”, la cui gestione è ancora relativamente semplice. Diverso sarà quando entreremo nel vivo della vaccinazione di massa: in quella fase – conclude – soprattutto i tempi e le lungaggini anamnestiche e burocratiche che seguono e precedono ogni vaccinazione dovranno necessariamente ridursi. Non possiamo permetterci, come ora, di impiegare 30 minuti a persona».

 

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