Il farmaco di Merck mostra risultati decisamente promettenti: sembra bloccare la replicazione di Sars-CoV-2 se somministrato non oltre 5 giorni dalla comparsa dei sintomi e previene ospedalizzazioni e morti del 50%
È della scorsa settimana l’annuncio dell’azienda farmaceutica Merck di una pillola antivirale che, dagli studi, mostrerebbe di dimezzare i ricoveri e le morti tra le persone con Covid-19. Se confermato dalla peer review e poi autorizzato dagli enti regolatori, diventerebbe il primo trattamento orale anti-Covid. Ogni altra soluzione, l’antivirale remdesivir e gli anticorpi monoclonali, è finora stata presentata per via endovenosa o su iniezione.
Il molnupiravir si dovrebbe somministrare nelle prime fase dell’infezione da Covid-19, per curare con più efficacia la malattia e limitare il rischio di riempire gli ospedali. Il farmaco, segnala Nature, si è mostrato talmente efficace in fase 3 del trial su persone positive al Covid e a rischio di un decorso negativo, che i ricercatori hanno interrotto l’arruolamento in anticipo.
La svolta di questo farmaco potrebbe stare proprio nella sua somministrazione anticipata, in quanto il trattamento precoce ai primi sintomi risolverebbe la situazione sul nascere. Anche se, come hanno fatto notare alcuni esperti, implicherebbe di individuare rapidamente tramite tracciamento la positività a Sars-CoV-2. Non sempre possibile specie per i paesi a cui un farmaco darebbe maggior beneficio, come quelli più poveri.
La domanda che tutti si sono fatti in questi mesi è: perché solo ora sviluppiamo dei farmaci antivirali? Non si tratta infatti della prima pandemia causata da un virus respiratorio. Era già successo con SARS nel 2002 e MERS nel 2012, ma la loro rapida sparizione non aveva mai incoraggiato le case farmaceutiche a procedere in questo senso.
Il molnupiravir è stato inizialmente pensato come terapia per l’encefalite equina venezuelana dalla Drig Innovations Ventures at Emory ma nel 2015, l’amministratore delegato di DRIVE George Painter lo ha offerto a un collaboratore, il virologo Mark Denison della Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee, per testarlo contro i coronavirus. Non solo, anche il collaboratore Plemper ha avuto il farmaco per testarlo nei furetti. Con gli animali i risultati sono stati sorprendenti: il virus ha smesso di replicarsi e la trasmissione tra infetti e non infetti è stata bloccata. I dati che ora possiede Merck mostrerebbero che potrebbe essere vero anche per gli uomini.
Molnupiravir, come il remdesivir, imita alcuni degli elementi costitutivi dell’RNA. Ma i composti funzionano in modi completamente diversi. Quando il virus entra in una cellula deve duplicare il suo genoma di RNA per formare nuovi virus. Molnupiravir viene incorporato in filamenti di RNA all’inizio e, una volta dentro, provoca il caos. Quei filamenti di RNA diventano “progetti difettosi” per il prossimo ciclo di genomi virali. Ovunque il composto venga inserito e avvenga uno spostamento conformazionale, si verifica una «mutazione puntiforme», dice Plemper. Quando si accumulano abbastanza mutazioni, la popolazione virale collassa. Una «mutagenesi letale» in cui «il virus essenzialmente muta se stesso fino alla morte».
Se confermasse il suo funzionamento, l’antivirale diventerebbe una delle armi più forti al mondo ma per farlo dovrebbe risultare accessibile a tutti. Ad oggi, riferisce Nature, il prezzo è inferiore sia a remdesivir che agli anticorpi monoclonali, ma è ancora troppo costoso per gran parte del mondo (1,7 miliardi di campioni per 1,2 miliardi di dollari). Merck ha stretto accordi di licenza con cinque produttori indiani di farmaci generici. Questi accordi consentono ai produttori di fissare il proprio prezzo in India e in altri 100 paesi a basso e medio reddito.
Se anche il prezzo fosse fissato positivamente resterebbe però la necessità di somministrarlo nei primi cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi e nei paesi più poveri questa sarebbe la grande sfida.
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