Secondo il Presidente della FAVO Francesco De Lorenzo sarà fondamentale garantire la continuità delle cure oncologiche sul territorio attraverso le Reti e il Fascicolo sanitario. Secondo il Rapporto FAVO il 30% dei malati oncologici potrebbe essere seguito per una parte significativa del proprio percorso di cura sul territorio
Una delle sfide del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è quella della riforma dell’assistenza sanitaria territoriale a cui il Piano destina 7,9 miliardi di euro. Alle 1359 Case di Comunità, ai 605 Centri operativi territoriali e ai 400 Ospedali di Comunità il compito di gestire le cronicità.
Come ricorda l’ultimo Rapporto FAVO – Federazione Associazioni di volontariato in Oncologia, sulla Condizione assistenziale del malato oncologico c’è molta attesa anche per capire come gestire l’oncologia territoriale. Il 30% dei malati oncologici (che in Italia sono oltre 3 milioni e mezzo di persone) potrebbe essere seguito per una parte significativa del proprio percorso di cura sul territorio. Nel rapporto, redatto tra gli altri da Luigi Cavanna, Paolo Varese, Giordano Beretta e Pierluigi Bartoletti, si fa riferimento al ruolo essenziale che possono svolgere alcuni professionisti sanitari in questo ambito, come i MMG e l’infermiere di famiglia. Alcuni trattamenti oncologici, di basso impegno assistenziale, possono essere eseguiti a domicilio del paziente sotto controllo specialistico, in sinergia con il MMG e, tra le proposte, c’è quella di prevedere una cartella clinica informatizzata unica (ospedale e territorio) che deve essere alimentata da tutti i professionisti coinvolti nelle diverse fasi del percorso. Ne abbiamo parlato con il presidente FAVO Francesco De Lorenzo.
«Nel rapporto di quest’anno abbiamo voluto che ci fosse l’indicazione di come noi come associazione dei malati insieme agli oncologi riteniamo che si debba tener procedere ai fini della organizzazione dell’oncologia territoriale. Il capitolo è stato svolto da esperti che hanno avuto esperienza diretta di oncologia territoriale. Il problema del funzionamento dell’oncologia territoriale si potrà risolvere solo quando saranno organizzate le Reti oncologiche. Senza le Reti, l’assistenza sul territorio è difficile: c’è la necessità urgente che ci sia una continuità tra l’ospedale e il territorio. Questa continuità dev’essere garantita dal Fascicolo sanitario necessario tanto al malato che è in trattamento che a quello che lo termina. In questo modo il medico di famiglia sa cosa deve fare per la prevenzione degli effetti tardivi e per gli screening. Ma soprattutto consente la possibilità di rendere note al livello del territorio (a infermieri e medici di famiglia) le procedure necessarie per la continuità del trattamento. È fondamentale che il malato venga aiutato dai professionisti sul territorio a svolgere alcune cure a bassa intensità al domicilio o sul territorio senza la necessità di rivolgersi all’ospedale, evitando lunghe attese e lunghi viaggi. Il personale all’interno delle Case di Comunità deve essere in grado di accogliere le esigenze dei malati di cancro».
«Ci sono diseguaglianze di cui bisogna tener conto. Molte dipendono dalla differente organizzazione delle Reti oncologiche nelle varie regioni. Noi abbiamo notato con soddisfazione che negli ultimi tre-quattro anni alcune regioni del sud che erano indietro e ora sono all’avanguardia come la Puglia e la Campania. In Basilicata e Calabria sono più arretrati, problemi in Abruzzo. La Sicilia sta cominciando a progredire. Il problema è che queste diseguaglianze si superano solo se c’è una regia a livello nazionale, un monitoraggio che consenta di individuare quali sono i ritardi e intervenire per assistere e sostenere le regioni attraverso Agenas. Bisogna definire il funzionamento e anche la governance delle Reti, oltre che finanziarle».
«Se le regioni non rispettano i criteri vanno incentivate. È necessario capire attraverso il monitoraggio e un contatto diretto che le regioni dovrebbero avere con Agenas quali sono gli aspetti che ancora creano difficoltà e intervenire per diffondere le best practice, associare le regioni più virtuose con quelle che ancora hanno dei problemi. Ci vuole una regia nazionale: proprio perché la sanità è molto regionalizzata ci vuole una regia che consenta di far scomparire queste diseguaglianze».
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