Salute 26 Settembre 2022 09:23

Il trapianto di microbiota sostituirà l’uso dei farmaci?

I ricercatori dell’Università Cattolica di Roma e dell’Università degli Studi di Trento hanno dimostrato che maggiore è il livello di attecchimento dei microrganismi trapiantati, maggiori sono le chance di successo della terapia. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, apre nuove frontiere per il trattamento di molte patologie, non solo intestinali

Sindrome metabolica, malattie infiammatorie croniche intestinali, sindrome dell’intestino irritabile sono alcune delle patologie che gli studiosi hanno tentato di curare con il trapianto di microbiota (Fecal Microbiota Transplantation – FMT). Ma con scarsi risultati. «Solo per il trattamento dell’infezione da Clostridium difficile il trapianto fecale garantisce il successo in oltre il 90% dei casi», sottolinea

Gianluca Ianiro, ricercatore in malattie dell’Apparato Digerente all’Università Cattolica e dirigente medico della UOC di Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS. Una differenza di esiti così marcata da aver spinto gli studiosi ad indagarne le motivazioni: perché il trapianto di microbiota, pur essendo così tanto efficace per il trattamento dell’infezione da Clostridium difficile, dà scarsi risultati con altre patologie che pure hanno una correlazione con l’alterazione del microbiota intestinale?

Lo studio

È stato proprio il dottor Ianiro, con il professore Nicola Segata, ordinario di Genetica all’Università di Trento e nel Dipartimento Cibio dell’ateneo di Trento e dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, a trovare una risposta a questo interrogativo. «Già alcuni studi avevano dimostrato l’esistenza di una correlazione tra l’attecchimento del microbiota e la risposta clinica: tanto meglio attecchisce il microbiota trapiantato, migliore è la risposta clinica ottenuta», aggiunge Ianiro. Ma lo studio pubblicato, sulla rivista Nature Medicine, non si è limitato ad individuare il livello di attecchimento del microbiota del donatore nel ricevente, è andato bene oltre.

«Abbiamo sviluppato delle nuove tecnologie che ci consentono di capire quali varianti di batteri trovano un’effettiva corrispondenza tra donatore e ricevente. In questo modo, alla fine del trapianto – che si effettua isolando e purificando il microbiota del donatore raccolto dalle feci e trasferendolo con varie modalità (in capsule o durante una colonscopia) al paziente donatore – siamo in grado di valutare quanti ceppi batterici del donatore si trovano effettivamente e nel ricevente e, di conseguenza, stimare il livello di attecchimento e l’effettivo successo del trapianto», spiega il professor Segata.

Alla ricerca del donatore “più compatibile”

Gli esperti hanno analizzato con sofisticatissime tecniche di sequenziamento genomico e di analisi informatiche un totale di più di 1.300 campioni di microbiota intestinale (raccolti con le feci) di donatori e pazienti riceventi con ben otto diverse malattie, come Clostridium difficile, infezioni da batteri intestinali multiresistenti agli antibiotici, sindrome metabolica, melanoma, malattie infiammatorie croniche intestinali, sindrome dell’intestino irritabile, diarrea da chemioterapici, sindrome di Tourette. Ma non è tutto. «Queste stesse nuove tecniche di analisi – continua l’Ordinario di Genetica all’Università di Trento – possono essere utilizzate anche prima di effettuare il trapianto, cercando di associare ad ogni ricevente il donatore più compatibile. Migliore sarà il match (ovvero maggiore sarà la compatibilità tra donatore e ricevente), migliore saranno i risultati ottenuti nel post trapianto». Il trattamento è risultato più efficace con alcune patologie in particolare: «Abbiamo visto – spiega Ianiro – che l’attecchimento è maggiore nei pazienti con malattie infettive (che hanno uno squilibrio del microbiota – disbiosi – più “semplice” e più facilmente ripristinabile) rispetto a quelli con patologie croniche (che hanno disbiosi più complessa e inveterata)».

La fase pre-trapianto

Anche la preparazione al trapianto gioca un ruolo fondamentale: «Abbiamo  riscontrato – continua Ianiro – che i pazienti trattati con antibioticoterapia prima della procedura di trapianto hanno avuto un attecchimento maggiore e che l’infusione del microbiota tramite vie di somministrazione multiple (es. capsule insieme alla colonscopia) favorisce l’attecchimento». Cosi come «è emerso anche – riprende Segata – che alcune specie microbiche (in particolare appartenenti ai phyla dei  proteobatteri e degli attinomiceti) hanno più facilità di attecchimento rispetto ad altri». A completare il quadro e migliorare ulteriormente l’esisto della ricerca è l’intelligenza artificiale che permette di predire con rilevante accuratezza la composizione del microbiota del donatore dopo il trapianto. «Questo – spiegano i ricercatori – potrebbe quindi portare a identificare i donatori le cui feci riescono ad aumentare di più la varietà del microbiota (che è un parametro di salute del microbiota) post-trapianto fecale».

Il futuro della ricerca

Il trapianto di microbiota è, dunque, una nuova frontiera terapeutica che abbraccia diversi settori della medicina, non solo la gastroenterologia, ma anche l’oncologia. «In particolare, si è ormai fatta strada l’idea che il microbiota intestinale abbia un ruolo importante sia per il tratto digerente, sia per il sistema immunitario, sia addirittura (attraverso il collegamento intestino-cervello operato dal nervo vago) per il sistema nervoso, con possibili riflessi su patologie complesse come sclerosi multipla e autismo», dice Segata. Tutte buone notizie che spingono i ricercatori ad andare avanti: «Abbiamo da poco vinto un finanziamento per condurre, sempre col gruppo di Trento e di Milano e con la nostra unità di Oncologia Medica, uno studio randomizzato e controllato atto a valutare se – conclude Ianiro – il trapianto fecale riesca a migliorare la risposta terapeutica alle immunoterapie (ultima frontiera dei farmaci oncologici) in pazienti con cancro del rene in stadio avanzato».

 

 

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