Uno studio che coinvolge anche l’Italia ha provato l’esistenza di una mutazione di Sars-CoV-2 che sembrerebbe “più fragile”. Ce ne parla uno dei firmatari, il professor Massimo Ciccozzi del Campus Biomedico di Roma
Una variante “più fragile” di Sars-CoV-2 è attualmente in circolo. Un gruppo di scienziati ha analizzato le sequenze di virus estratte da vari Paesi del mondo e ha verificato la “delezione”, in una percentuale ancora bassa, di una parte della proteina Nsp1 che regola patogenicità e replicazione del virus. La scoperta arriva da un articolo in pubblicazione sul Journal of Translational Medicine di un gruppo internazionale di scienziati che coinvolge l’Università del Maryland, il Campus Biomedico di Roma e il Flavivirus Laboratory dell’Oswaldo Cruz Institute di Rio de Janeiro. Sanità Informazione ha intervistato uno dei firmatari dello studio, il professor Massimo Ciccozzi, a capo dell’Unità di Statistica medica ed Epidemiologia del Campus Biomedico di Roma.
Il termine “delezione” si usa quando avviene una mutazione cromosomica, ovvero un tratto di proteina si “rompe”, perdendo materiale genetico in maniera irreversibile. Il fatto che accada in un coronavirus è «sorprendente», come lo definisce lo studio. In quanto generalmente nei coronavirus si verifica un tasso moderato di mutazioni, grazie alla presenza di una proteina (ExonN) che funge da “correttore di bozze”.
«Il virus muta per definizione – spiega il professor Ciccozzi -. Un virus è un parassita e, nel momento in cui infetta un ospite, inizia a mutare per andare in equilibrio con il sistema immunitario di chi lo ospita, per cercare di parassitarlo. In questo virus sono state descritte molte mutazioni, ma la maggior parte di queste erano transient. Cioè, non avendo alcuna utilità, il virus le ha perse quasi subito. Altre sono rimaste, come la D614G». Di cui si parla approfonditamente nel libro scritto da Ciccozzi, “Il virus è mutato“.
Nonostante il numero di sequenze in cui il nuovo ceppo virale di Sars-CoV-2 sia ancora una piccola frazione del totale, i dati parlano chiaro. La mutazione è diffusa in diverse aree, tra Europa, Nord e Sud America. Si caratterizza per una delezione nella regione C-terminale del gene Nsp1, che si traduce in una proteina priva di tre amminoacidi (KSF). «La perdita di un amminoacido può portare a uno slittamento del frame di lettura della proteina e renderla inattiva, oppure modificarla nella sua proprietà» precisa l’esperto.
La sostituzione di due di questi amminoacidi (KS) ha ridotto l’effetto che inibisce la risposta immunitaria innata a Sars-CoV-2 nel corpo umano, e «ristabilito buona parte dell’espressione dell’interferone alfa in precedenti esperimenti in laboratorio», osserva Ciccozzi. «Poiché dall’interferone alfa dipende la risposta immunitaria innata del nostro organismo – aggiunge – la delezione potrebbe ripristinare la risposta del sistema immunitario innato». Di conseguenza, si legge sullo studio, «ipotizziamo che i virus che ospitano questa delezione siano probabilmente meno patogeni rispetto ai ceppi virali comunemente osservati».
«Del resto – racconta Ciccozzi – lo stesso fenomeno è stato segnalato, prima di Covid-19, nella SARS e nelle normali influenze endemiche nella specie umana. La delezione che descriviamo indica che SARS-CoV-2 sta forse iniziando a subire profondi cambiamenti genomici, e a questo punto diventa importante confermare la eventuale diffusione di questo particolare ceppo virale. E potenzialmente anche di altri possibili ceppi con altre delezioni nella proteina Nsp1 o in altre proteine, sia nella popolazione di soggetti asintomatici e pauci-sintomatici, e correlare questi cambiamenti nelle strutture di alcune proteine con l’andamento pandemico del virus».
Proprio perché la maggior parte delle sequenze genomiche raccolte finora proviene da soggetti sintomatici, sembrerebbe logico ora caratterizzare la popolazione asintomatica. Lo studio ipotizza, infatti, che sia proprio quella la popolazione da indagare per identificare ulteriori fasi evolutive del virus mutato, che possano indicare una concreta riduzione della patogenicità. A tutti gli effetti una “variante più fragile”. Anche se «dire “variante più fragile” è solo una ipotesi di lavoro per successive sperimentazioni, che potranno o meno avvalorare l’ipotesi che abbiamo fatto», conclude l’epidemiologo.
Sarà in ogni caso un processo molto lungo di studio e ricerca, mentre si avvicina la stagione fredda di questo 2020. Nonostante il rialzo dei contagi delle ultime settimane, «non credo che potremmo rivedere una sorta di “harvesting” (mietitura) così come lo abbiamo visto in febbraio/marzo», dice il professore.
«Certamente dovremmo imparare a convivere con questo virus che cercherà nel tempo di adattarsi sempre di più a noi. Quindi prudenza – conclude -. Mascherine, distanziamento sociale e lavarsi spesso le mani sono le uniche armi che abbiamo per combattere il virus. Aspettando un vaccino che ci permetta di sperare in un futuro migliore».
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