Scoperto nei topi l’interruttore dell’infanticidio. L’ipotesi degli scienziati: «Potrebbe agire anche negli umani»
L’ultima condanna un mese fa: una donna, nota alle cronache come la giovane mamma di Martano, dovrà scontare 4 anni e 4 mesi di reclusione per aver tentato di uccidere il proprio figlio appena nato con delle forbici. Ora, i ricercatori potrebbero aver trovato una motivazione scientifica ad gesto tanto atroce. L’ipotesi avanzata dagli scienziati è che nel cervello delle donne-madri ci sia una sorta di interruttore che, se attivato, spingerebbe all’infanticidio. Per ora, però, questo interruttore letale sarebbe stato individuato solo nelle femmine di topo. Ma gli autori della scoperta sono convinti che possa svolgere un ruolo simile anche negli esseri umani, aprendo così la strada alla prevenzione degli infanticidi.
I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature dalla NYU Grossman School of Medicine negli Stati Uniti. L’interruttore cerebrale che scatena l’infanticidio si trova in una regione del mesencefalo legata a controllo delle emozioni e nota come “nucleo principale del nucleo del letto della stria terminalis” (BNSTpr). L’inibizione di questa regione nelle femmine di topo permette di prevenire quasi il 100% degli infanticidi. Al contrario, la sua attivazione induce le femmine ad attaccare i cuccioli propri e altrui nel giro di appena un secondo. Raramente si sono registrati attacchi rivolti ad altri esemplari adulti e questo lascia pensare che la struttura controlli in maniera specifica l’aggressività verso i piccoli.
Lo studio dimostra che la regione BNSTpr svolge un’azione opposta rispetto a un’altra regione del cervello (denominata area preottica mediale, MPOA), che invece promuove un comportamento di accudimento nei confronti della prole. Nelle femmine di topo che non hanno ancora partorito risulta più attiva la regione BNSTpr, che inibisce la MPOA: ciò le induce spesso a uccidere i cuccioli delle altre femmine, probabilmente per assicurare più risorse alla propria futura cucciolata. Dopo il parto la situazione si ribalta: l’attività di MPOA aumenta frenando l’aggressività verso i cuccioli e dunque evitandone l’uccisione.
«Poiché queste due regioni comunicanti nel mezzo del cervello possono essere trovate sia nei roditori che negli esseri umani – afferma la neuroscienziata Dayu Lin che ha coordinato lo studio – i nostri risultati suggeriscono un possibile target per comprendere, e forse anche curare, le madri che abusano dei loro figli. Forse queste cellule normalmente rimangono dormienti, ma lo stress, la depressione postpartum e altri fattori scatenanti noti per gli abusi sui minori – conclude – possono spingerle a diventare più attive».
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