Il monito del presidente della Società Italiana di Cardiologia: «Con sintomi gravi – dolore toracico, sudorazione o difficoltà respiratorie – non bisogna esitare, si deve chiamare subito il 118. Negli ospedali ci sono percorsi dedicati ai cardiopatici, differenziati da quelli per i pazienti affetti da Covid-19»
Contemporaneamente all’imperversare della pandemia da SARS-CoV-2, continua a registrarsi in tutta la penisola un netto calo degli accessi nei Pronto Soccorso e nelle strutture d’emergenza per problemi cardiovascolari: di recente, una persona a Lucca è morta a causa di un infarto per essersi recata con grave ritardo all’ospedale. A dare l’allarme, la Società Italiana di Cardiologia (Sic) che ha condotto un’indagine su un campione di 52 unità di terapia intensiva cardiologica di tutt’Italia.
«Siamo stati i primi a renderci conto della diminuzione di accessi e dei ricoveri per ictus e infarti negli ospedali – spiega a Sanità Informazione la Società Italiana di Cardiologia a nome del presidente, il professor Ciro Indolfi, Ordinario di Cardiologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro -. Mi ero accorto che nella mia Utic (Unità di Terapia intensiva cardiologica) i posti letto erano vuoti e non capivo se fosse un problema locale. Così, lo scorso marzo, abbiamo fatto un’indagine su 52 ospedali italiani distribuiti su tutto il territorio nazionale, abbiamo controllato i numeri dei ricoveri e li abbiamo paragonati alla stessa settimana dell’anno precedente. È emerso che questa riduzione era presente ovunque, sia al nord – dove molte terapie intensive cardiologiche sono state tramutate in centri Covid-19 – sia al centro che al sud, dove il virus si è, fortunatamente, diffuso meno e i posti erano disponibili».
Di che numeri parliamo? «Nelle Utic (Unità di Terapia intensiva cardiologica) si ricoverano pazienti in emergenza che hanno chiamato il 118 o hanno effettuato l’accesso al pronto soccorso. In questi reparti – precisa il professore – c’è stata una riduzione di accessi del 50% per infarti, del 40% per scompenso cardiaco, del 30% per fibrillazioni atriali e del 35% per tutti i devices non funzionanti come pacemaker e defibrillatori». E allora, la domanda nasce da sé: ci sono stati meno infarti, nelle settimane di maggior diffusione dell’epidemia da Coronavirus, o la motivazione del fenomeno può essere ricondotta alla paura del contagio da Covid-19?
«Noi abbiamo fatto solo un’indagine epidemiologica e stabilire le motivazioni assolute, al momento, non è possibile. Sicuramente, l’ipotesi più plausibile – ammette il professor Indolfi – è che il paziente ha paura di essere infettato negli ospedali Covid-19; la seconda possibilità è che tutto il sistema dell’emergenza, soprattutto al nord, sia focalizzato prevalentemente su Covid-19 a cui viene data priorità assoluta e l’ultima, purtroppo piuttosto improbabile, è che in Italia improvvisamente si siano ridotti gli infarti».
«Ma la cosa più preoccupante – continua il presidente della Società Italiana di cardiologia – è il persistere di due fattori allarmanti: le persone non solo non si ricoverano, ma quando decidono di chiedere aiuto lo fanno con estremo ritardo, anche di giorni. E per l’infarto, che è una malattia definita tempo-dipendente, il riconoscimento precoce dei sintomi e la tempestività nell’intervento sono decisivi per il funzionamento della terapia, la sopravvivenza e la riduzione delle complicanze. Anche pochi minuti di ritardo nella diagnosi e nel trattamento dell’infarto sono gravi quanto la mancanza di ricovero».
Recarsi immediatamente nei centri di riferimento specializzati per l’emergenza cardiovascolare è fondamentale per la sopravvivenza e non è rischioso: «Bisogna tranquillizzare le persone, non devono avere paura perché in Italia e in tutto il mondo ci sono percorsi dedicati ai cardiopatici, differenziati da quelli per i pazienti affetti da Covid-19. Il rischio di rimanere a casa è molto più alto, in quanto le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la prima causa di morte in Italia».
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«La nostra preoccupazione – prosegue il professore – è che ci sia nelle prossime settimane un aumento di mortalità e di morbilità per malattie cardiovascolari. Gli ambulatori sono chiusi per le visite di routine e questo porterà a una minor attenzione nelle diagnosi e terapie per le malattie del cuore e dei vasi. Per questo, come Sic, raccomandiamo di non interrompere le terapie croniche senza consultare il cardiologo. Si è tanto parlato del fatto che alcuni farmaci molto utilizzati per l’ipertensione, per lo scompenso cardiaco e le malattie coronariche, gli ACE-inibitori, agirebbero come recettori funzionali del Coronavirus e quindi potrebbero avere alcuni effetti nei soggetti colpiti dal virus SARS-Cov-2. Ad oggi non ci sono dati, non sono stati fatti ancora studi a proposito, ci sono solo ipotesi ma la medicina si basa sull’evidenza scientifica. Non sono stati documentati effetti che dimostrino maggior rischio di complicanze se si utilizzano questi farmaci, quindi evitare di “autogestirsi” la terapia e in caso di dubbi chiamare subito il cardiologo».
Il professore conclude con le raccomandazioni più importanti da tenere a mente per i cardiopatici e, più in generale, i pazienti cronici e fragili: «In presenza di sintomi preoccupanti, come dolore toracico al centro del petto di tipo costrittivo, accompagnato o meno da sudorazione o difficoltà respiratorie bisogna chiamare il 118 immediatamente. Per tutto il resto, consultare sempre il proprio medico o lo specialista. I pazienti anziani e fragili con patologie devono stare a casa in isolamento assoluto, continuare la terapia e, se è indispensabile uscire, usare la mascherina e mantenere le distanze di sicurezza. Se non vi è urgenza o necessità di andare in ospedale, è meglio rimandare visite di controllo e di routine. In caso di emergenza e attacco cardiaco, anche in epoca Covid-19, non si deve avere timore di chiamare il sistema di emergenza. Ogni minuto è prezioso».
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